8.09.2020

La testimonianza nel giudizio penale

8.09.2020

La testimonianza nel giudizio penale

Tratto da “La testimonianza nel processo penale: profili sostanziali e criticità tra psicologia e diritto”, Dott. Marco Pino, 2017. Riproduzione riservata

 

La prova alla base della decisione del giudice

Il procedimento giudiziale, sia in ambito civile che penale, ha come finalità l’accertamento della verità processuale, ovvero una rappresentazione che in fatto ed in diritto venga ritenuta aderente a quanto realmente accaduto in relazione ad un determinato evento.

Il tema della sorprendente distanza che può sussistere tra verità sostanziale e verità processuale non è affatto secondario: la realtà fenomenica, le circostanze ed ancor di più gli stati psichici di un soggetto assumono valenza o meno in giudizio non solo in relazione alla loro effettiva sussistenza, bensì in quanto possano essere provati o non provati.

Il legislatore ha infatti delineato in maniera particolarmente rigorosa il regime della prova, nel tentativo di ridurre il più possibile la distorsione che sussiste tra realtà e rappresentazione della realtà. E’ questo, da sempre, lo sforzo costante di ogni sistema giuridico, con la consapevolezza che la tensione verso la certezza deve confrontarsi con limiti, imprecisioni ed errori e che al meglio può solo sperare di avvicinarsi ad una soglia che è però ontologicamente preclusa all’uomo: la giustizia non è che una aspirazione ideale, ma irraggiungibile poiché prerogativa esclusiva di un Assoluto che trascende la realtà naturale.

La limitatezza e l’imperfezione delle leggi si combina poi con l’elemento di variabilità costituito dal fattore umano, laddove diversi giudici, diversi pubblici ministeri, diversi avvocati, diverse parti offese e anche diversi imputati concorrono a comporre interazioni che di volta in volta sono peculiari e quasi sempre imprevedibili.

Il legislatore ha cercato di ridurre l’alea di incertezza disponendo che il giudice debba decidere sulla base di motivazioni che siano fondate da un punto di vista logico e causale, tali da portarlo a pronunciare sentenza di condanna solo quando la colpevolezza dell’imputato venga riconosciuta “al di là di ogni ragionevole dubbio” come imposto dall’art. 533, comma I, del codice di procedura penale: “1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio […]”.

Tale principio di diritto è scaturito dalla rivoluzionaria sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 30328/2002 – la “sentenza Franzese” – la quale ha rideterminato le basi dell’analisi del nesso causale in ambito penale, imponendo un criterio altamente stringente ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’imputato, principio che ha poi avuto espressa manifestazione normativa nella nuova formulazione proprio dell’art. 533 c.p.p., così come modificato dalla l. n. 46/2006, c.d. legge Pecorella.

Compito del giudice è dunque quello di stabilire se le prove dell’accusa abbiano dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che l’imputato abbia commesso il reato ascrittogli, limitandosi a constatare se l’accusa sia riuscita a rispettare tale standard probatorio.

Ne consegue che il giudicante non è libero di valutare le prove secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non – criterio questo proprio del processo civile – al punto che se anche le prove portate dall’accusa fossero preponderanti, ma lasciassero aperti dei dubbi, il giudice dovrebbe necessariamente prosciogliere.[1]

La formazione della decisione del giudice dipende infatti dai criteri di riferimento imposti dal legislatore e dunque se il criterio è costituito dall’oltre il ragionevole dubbio, ciò significa che è richiesto un livello minimo di conferma probatoria che è assai più elevato di quello della prevalenza di conferma logica di un’ipotesi rispetto alle altre[2].

Da ciò discende che si incorre pacificamente in errore anche nel caso in cui si ritenga provata l’accusa qualora le prove che rimangano – cioè quelle non confutate – assicurino un alto grado di probabilità logica.[3]

Pertanto, quand’anche dal procedimento dovesse emergere un’ipotesi accusatoria ragionevole, attendibile e probabile, mentre dalla difesa dovesse provenire un’ipotesi ampiamente improbabile, ciò non basterebbe comunque a fondare una sentenza di condanna che superi la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Tale confronto di ipotesi potrebbe ben considerare accettabile una pronuncia di responsabilità nell’ambito del processo civile – materia in cui per l’accertamento del nesso causale vige il meno rigoroso principio del “più probabile che non[4] – ma non certo nell’alveo di un processo penale.

Dottrina e giurisprudenza hanno tuttavia puntualizzato che “ragionevole dubbio” non è il mero dubbio sempre possibile o il dubbio fantasioso o immaginario, ma è il dubbio che, dopo tutte le valutazioni e le considerazioni sulle prove, non consente al giudice di potere avere una convinzione assoluta e granitica sulla fondatezza dell’accusa.[5]

L’iter argomentativo deve dunque essere privo di fallacie di ragionamento che ne inficino la coerenza logica e fattuale, evitando in particolare di percorrere un approccio verificatorio teso a confermare l’ipotesi dell’accusa, anziché approfondire ipotesi alternative o sottoporre a falsificazione le proprie deduzioni.

Il nesso di causalità merita una particolare attenzione, poiché costituisce il cardine che lega l’evento alla condotta del soggetto “Affinché una modificazione del mondo esteriore (evento) possa essere attribuita ad un uomo, è necessario che si sia verificata in conseguenza dell’azione di lui: occorre in altri termini, che tra l’una e l’altra esista un rapporto di causalità […] una modificazione del mondo esterno che non abbia alcun legame con la condotta dell’uomo, un avvenimento che senza di essa si sarebbe verificato allo stesso modo, non può considerarsi opera di lui e, quindi, non può essergli posto a carico […] Di qui la necessità di stabilire che cosa occorra, affinché l’uomo possa considerarsi causa di un evento”.[6]

Il legislatore indica i principi generali del rapporto di causalità all’art. 40 del Codice Penale: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Definire però quando un evento sia o meno conseguenza dell’azione o dell’omissione di un soggetto può rivelarsi estremamente problematico in taluni casi; è una tematica che infatti ha aperto ampi interrogativi e ha dato vita a diverse posizioni contrastanti sia in dottrina che in giurisprudenza.

Tra le diverse teorie, è opportuno citare la teoria della causalità naturale – o della condicio sine qua non – come anche la teoria della causalità adeguata o quella della causalità umana di Antolisei, fino alla teoria oggi accolta dalla dottrina prevalente (tra cui Stella, Fiandaca-Musco, Mantovani, Padovani) della causalità scientifica – o della sussunzione sotto legge scientifica – secondo la quale “un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (c.d. legge generale di copertura), portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto[7].

Ognuna di tali teorie singolarmente appare tuttavia inidonea a fornire un modello generale realmente capace di spiegare il nesso di causalità per ogni tipologia di reato e per le infinite declinazioni che può assumere ogni fattispecie; alla luce di ciò, la giurisprudenza ha scelto di orientarsi su criteri certamente riconducibili alla dottrina prevalente, ma li ha corretti attingendo anche dagli altri approcci dottrinari per rispondere alle necessità che emergono dal confronto quotidiano con i casi concreti.

Chiave di volta della struttura argomentativa della sentenza sono dunque le evidenze probatorie e la loro corretta interpretazione alla luce della logica e del nesso di causalità.

A riguardo il legislatore ha indicato all’art 192 del Codice di Procedura Penale i criteri secondo i quali deve essere valutata la prova: “1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. 2. L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. 3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. 4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371, comma 2, lettera b)”.

Il giudice deve dunque palesare quali siano le risultanze probatorie emerse e sulla base di quali ragioni di fatto, scientifiche e di diritto ne abbia dato una certa valutazione. Si tratta di una fase articolata e complessa, poiché non è sufficiente che venga considerato il valore autonomo dei singoli elementi di prova; è necessario invece che si giunga ad una valutazione complessiva, logica, congruente e coordinata di tutte le prove, considerando tutti e ciascuno gli elementi emersi dall’istruttoria, attraverso un processo induttivo che dovrebbe essere in grado di portare dal particolare ad un intero che è più della semplice somma dei singoli elementi, facendo così emergere la verità processuale – in una prospettiva che per alcuni aspetti si potrebbe definire gestaltica – cioè la verità del caso concreto nella rappresentazione giudiziale.

Se, al contrario, le risultanze processuali dovessero essere smembrate e considerate singolarmente e per ciascuna di esse il giudice fornisse valutazioni sommarie e parziali – omettendo di considerarle nel loro insieme – si configurerebbe chiaramente in tal caso la violazione dei principi posti dal legislatore.[8]

E’ questo un passaggio fondamentale e generalmente critico nella pratica quotidiana dei tribunali, poiché frequentemente la valutazione della prova si presta a diverse interpretazioni, anche ampiamente divergenti.

La stessa metodologia di acquisizione della prova, l’esame del suo contenuto, i criteri di valutazione delle risultanze, nonché la correlazione con le altre emergenze probatorie divengono inevitabilmente oggetto del contraddittorio che ha luogo in giudizio tra Pubblico Ministero – ed eventuale parte civile – da una parte e difesa dell’imputato dall’altra.

L’importanza del contraddittorio è ormai pacifica ed il metodo dialettico costituisce lo strumento più efficace a disposizione del sistema giudiziario per giungere all’accertamento della verità: il confronto tra le parti in causa costituisce uno dei tasselli fondamentali per il corretto espletamento della funzione giudiziale, poiché garantisce al giudice la migliore possibilità di formare adeguatamente il proprio convincimento.[9]

 

La prova testimoniale: caratteristiche e limiti.

Tra i mezzi di prova tipici previsti dal nostro ordinamento, la prova testimoniale assume un ruolo di particolare rilievo e rappresenta lo strumento cui viene fatto più frequentemente ricorso per la ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento.

In primo luogo, la prova per testi è del tutto congruente con i principi di oralità del procedimento penale, posto che il legislatore ha voluto opportunamente privilegiare il rapporto diretto tra il giudice e la prova che viene formandosi nel contraddittorio tra le parti, affinché la percezione di chi dovrà poi giudicare sia diretta e completa.[10]

La testimonianza si manifesta attraverso il racconto orale del teste rispetto a quanto è entrato a far parte della sua esperienza in relazione ai fatti per cui si procede; si tratta dunque di una narrazione che sebbene si debba limitare a riportare fatti ed eventi in maniera descrittiva ed oggettiva – nei limiti che si vedrà a breve – subisce inevitabilmente una distorsione passando attraverso il filtro della soggettività della persona che viene sentita.

Anche il giudice, per quanto possa essere preparato ed imparziale, non sfugge alla propria condizione umana e dunque non può fare altro che ascoltare il racconto del testimone anch’egli attraverso il filtro della propria soggettività cognitiva, emotiva ed esperienziale. E parimenti avviene per ogni parte processuale. Una somma di punti di vista che può trasformare i fatti oggetto del racconto e farli diventare altro da ciò che sono. Si comprende dunque come giurisprudenza e dottrina – consapevoli delle problematiche sottese a tale profilo – siano giunte a coltivare una particolare attenzione rispetto alla prova per testi, “troppo spesso generatrice di equivoci orientamenti nel cammino verso la verità[11].

Il legislatore, proprio a motivo dell’elevato rischio di alterazione che sussiste riguardo all’assunzione della testimonianza – in primis rispetto alla sua genuinità e verità – ne ha infatti regolamentato rigidamente l’ambito oggettivo e soggettivo di operatività; in questo modo si è cercato di delimitare i possibili effetti distorsivi e la loro influenza sulla formazione del convincimento del giudice.

L’art. 194 Cod. Proc. Pen., si occupa in particolare di definire l’oggetto ed i limiti della testimonianza: “1. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova, non può deporre sulla moralità dell’imputato, salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale. 2. L’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell’imputato deve essere valutato in relazione al comportamento della persona. 3. Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”.

Il primo importante confine che viene posto all’esame del teste è costituito dall’obbligo di circoscrivere l’oggetto della testimonianza ai fatti che costituiscono oggetto di prova in relazione al capo di imputazione. Delimitato il campo di azione della prova testimoniale, emerge un ulteriore profilo di fondamentale rilievo, ovvero la necessità che l’escussione abbia ad oggetto esclusivamente fatti determinati, vincolando a tale regola sia le domande che le risposte.

Il divieto per il teste di riferire opinioni, apprezzamenti o inferenze personali – così come qualunque altro apporto che possa di fatto costituire una sua valutazione – mira infatti ad evitare che il contenuto della deposizione si discosti dall’oggettività storica dell’evento o della circostanza che viene narrata. Il teste deve in sostanza riferire unicamente ciò che ha percepito, ma non il risultato delle sue deduzioni sul percepito.[12]

Spesso la distinzione tra quanto è entrato a far parte dell’esperienza personale del teste e quanto il medesimo pensa di ciò che ha vissuto è alquanto labile; la sovrapposizione dei confini viene inoltre favorita dalla modalità orale di assunzione della testimonianza, la quale si svolge attraverso un narrato che può essere in alcuni casi asciutto ed oggettivo, ma in altri anche prolisso e tendenzialmente orientato alle inferenze personali.

In quest’ultima ipotesi è proprio la dialettica del contraddittorio tipica del dibattimento che può ricondurre la testimonianza nel suo legittimo alveo. Accade infatti usualmente che la parte che ritenga la deposizione del teste favorevole alla propria strategia, sia “naturalmente” propensa a lasciare che questi aggiunga commenti ed opinioni personali, al fine di accrescere l’impatto suggestivo di quanto narrato. Chiaramente la medesima indulgenza non verrà manifestata dalla parte avversa – si pensi alla contrapposizione tra PM e difesa – la quale potrà ben sollevare opposizione a siffatta modalità di condurre l’escussione.

In ogni caso è onere del giudice farsi garante, indipendentemente dall’iniziativa delle parti, del corretto svolgimento dell’esame testimoniale, bloccando ogni deriva sia delle domande che vengono poste che della narrazione della persona interrogata.

L’escussione del teste in dibattimento – ovvero la fase processuale deputata alla formazione ed acquisizione della prova nel contraddittorio delle parti – usualmente avviene attraverso le modalità dell’esame incrociato.[13]

L’esame incrociato – istituto proveniente dalla tradizione giuridica anglosassone, la c.d. cross-examination, sebbene già nel diritto romano fossero presenti forme simili di acquisizione della prova testimoniale – si sviluppa attraverso esame, controesame e riesame.

L’esame costituisce il primo approccio al testimone ed è condotto dal PM o dal difensore che ha chiesto l’assunzione di tale teste. Il controesame è invece una fase eventuale – sebbene sia raro che l’avente diritto non se ne avvalga – e si concretizza nelle domande a precisazione poste dalla parte che non aveva chiesto l’esame. Anche il riesame infine – ossia la possibilità per chi ha chiesto di sentire il teste di porre altre domande – è una fase altrettanto eventuale poiché può avere luogo unicamente se è avvenuto il controesame ed è comunque una facoltà. Una volta concluso l’esame incrociato così condotto dalle parti, anche il giudice può rivolgere autonomamente domande al teste.[14]

L’esame incrociato costituisce uno degli strumenti più utili al fine dell’accertamento della verità processuale, in quanto può fare emergere eventuali incongruenze, criticità o falsità della narrazione del testimone, favorendo al contempo il corretto bilanciamento tra le diverse posizioni processuali, a garanzia che la ricostruzione dei fatti emersa dell’esame testimoniale sia il più aderente possibile a quanto realmente avvenuto.

Anche questo strumento non è tuttavia immune dalle distorsioni generate dalle dinamiche conflittuali proprie del giudizio, le quali vanno a sommarsi alle peculiarità della prova per testimoni ed alla rilevanza degli aspetti psicologici ad essa sottesi, dei quali si dirà meglio in seguito.

Non si dimentichi infatti che il processo è il luogo dove la realtà viene ricostruita artificialmente, non però in collaborazione tra le diverse parti processuali, bensì in un contesto di opposizione e di “resistenza dinamica”. Ogni parte propone infatti una ricostruzione della realtà favorevole alla propria posizione ed al contempo cerca di demolire davanti al giudice la ricostruzione avversaria. Quest’ultimo può convincersi della fondatezza della rappresentazione fatta da una parte o di quella avanzata dall’altra, ma può anche elaborare una propria rappresentazione – altrettanto fittizia – diversa ed alternativa.[15] La sentenza che verrà emessa non è di fatto frutto della cooperazione tra gli attori processuali – perlomeno non volontaria – bensì di prevaricazione di una interpretazione rispetto alle altre.

 

Credibilità e attendibilità del testimone.

Le deposizioni testimoniali qualora siano dotate di una sufficiente coerenza logica e di una adeguata precisione costituiscono, di norma, piena prova dei fatti in esse attestati. Tuttavia quando tali requisiti non risultino pienamente presenti nelle dichiarazioni del teste, oppure quando si pongano in contrasto con altri elementi di prova o emergano particolari circostanze soggettive che potrebbero riverberarsi sulla testimonianza – si pensi, ad esempio, alla sussistenza di evidenti motivi di rancore personale del teste nei confronti dell’accusato – il giudice di merito è tenuto a dar conto, con argomentazione congrua ed esente da errori logici, della scelta che ha operato attribuendo piena credibilità e quindi valore di prova alle circostanze riferite dalla persona.

Per quanto riguarda la prova testimoniale, se è vero che la stessa, al pari di ogni altra prova, va sottoposta al vaglio critico del giudice – che deve darne contezza in sede di motivazione – è altrettanto vero che nella specificità dei singoli casi, siffatto vaglio non può che variare a seconda di quella che potrebbe definirsi la “qualità” della prova.

Tale qualità è determinata da una serie di elementi che possono essere della più varia natura nel caso concreto, ma tra i quali si riconoscono generalmente il grado di intrinseca attendibilità del teste – rivelato dalle sue caratteristiche personali, morali, ed intellettive – la presenza o meno di un suo personale interesse nella vicenda personale ed infine la sua capacità di attenzione e di memoria.

Se sussiste il fondato sospetto che vi siano elementi che possano far ritenere che il soggetto non attendibile, si rende allora necessario compiere ulteriori approfondimenti.

Tuttavia se tali elementi non sono presenti, il giudice deve partire dal presupposto che il teste – fino a prova contraria – riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se vi sia o meno incompatibilità tra quello che questi riporta come certamente vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre eventuali fonti probatorie di pari valenza. Compito del giudice è pertanto quello di interpretare e valutare la testimonianza, ponendo attenzione se la stessa incorre in vizi logico-giuridici e/o di travisamento dei fatti.[16]

La valutazione della credibilità del testimone e della sua intrinseca attendibilità costituiscono pertanto un aspetto decisivo nella valutazione della prova ed hanno evidente ricaduta nella definizione del procedimento giudiziale.

E’ bene rammentare che il testimone ha l’obbligo di dire la verità – a differenza dell’imputato, al quale questo vincolo non è imposto – e pur volendo qui considerare l’ipotesi che il teste intenda riferire effettivamente “il vero”, come percepito nella sua esperienza, non sfugge quanto possa essere variabile il grado di credibilità che il giudice può attribuire a quel soggetto e di come questa valutazione possa discostarsi anche ampiamente da quella delle altre parti processuali.

Si pensi in primo luogo alla natura certamente fluida del criterio di “qualità” della prova a cui si aggiunge l’ulteriore elemento della – inevitabile – discrezionalità del giudice. E’ vero che quest’ultimo deve sostenere la propria motivazione nel rispetto della logica e della coerenza con le altre fonti probatorie di pari grado, ma è proprio negli elementi molecolari alla base di tale valutazione che si possono annidare incognite ed errori. Profili di valutazione come le “caratteristiche personali”, o la moralità o ancora le capacità intellettive ed emotive di un soggetto sono territori interiori che come ben sanno i clinici non sono sempre facilmente definibili e sondabili e spesso portano più all’incertezza che alla certezza.

Si comprende pertanto come la logica e la coerenza, quand’anche vengano accompagnate da una particolare sensibilità e capacità intuitiva del giudice, non siano sufficienti a garantire che le valutazioni sulla credibilità del teste possano rispondere ad un criterio di reale uniformità né proporre un margine di accuratezza accettabile.

La rappresentazione del fatto narrato e la credibilità del soggetto che narra, la sua personalità, le sue capacità cognitive così come i riscontri circa la verosimiglianza di quanto riferito, unitamente alla rilevanza del fatto ed all’intrinseca attendibilità del soggetto, costituiscono tutti elementi che fanno della testimonianza non un semplice racconto informativo, bensì un atto complesso che si compone di una miscela di numerosi fattori.[17]

La potenzialità probatoria della testimonianza è dunque strettamente dipendente dalla rilevanza del fatto narrato e dalla attendibilità del testimone.

Se è vero che in molti casi la credibilità del teste, o l’assenza di credibilità, emergono in maniera palese ed in misura tale da non porre alcun ragionevole dubbio a riguardo, è altrettanto vero che nel diritto così come in psicologia le questioni più ostiche – ancorché più intellettualmente stimolanti – non si pongono rispetto ai casi pacifici, bensì emergono nelle situazioni limite, dove gli elementi divengono sfumati e le certezze sbiadiscono.

 

Capacità di testimoniare.

Strettamente connesso con il tema della credibilità del testimone, vi è quello relativo al problema di comprendere a chi possa essere riconosciuta la capacità di essere ascoltato in un giudizio.

La prova testimoniale, sebbene costituisca la prova principe del processo penale, porta in sé la genetica debolezza che deriva dell’essere fortemente condizionata dalle caratteristiche del soggetto che è chiamato a renderla.

I numerosi studi psicologici e psicopatologici che si sono susseguiti in relazione al processo testimoniale “evidenziano infatti, che l’esito della testimonianza puo essere influenzato dall’intervento di molteplici fattori capaci di alterare l’attivita percettiva, quella mnestica e quella espressiva che rappresentano le tre funzioni psicologiche base che confluiscono nel processo testimoniale. Possono inficiare la deposizione testimoniale anche situazioni di tipo psicopatologico presenti nel soggetto. Diceva Musatti che il contenuto di un ricordo testimoniale deve essere considerato come ‘qualcosa che non puo mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma e sempre il prodotto di una molteplicita di coefficienti, in parte dati dagli elementi di quel fatto obiettivo, ma in parte costituiti dalla natura stessa della personalita psichica del testimonio e da tutti gli elementi esteriori che hanno agito nel passato e che attualmente agiscono’. E’ noto che particolari quadri psicopatologici di personalita in quanto conducono ad alterazioni della capacita di ricordare e di correttamente valutare la realta, possono portare ad alterazioni nel processo testimoniale ed inficiare, definitivamente compromettendola, l’attendibilità del dichiarante”.[18]

L’art. 196 del Codice di Procedura Penale, titolato “Capacità di testimoniare”, si occupa di questo tema e attribuisce ad ogni persona, salvo la necessità di accertamenti, la capacità di rendere testimonianza: “1. Ogni persona ha capacità di testimoniare. 2. Qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, il giudice anche di ufficio può ordinare gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge. 3. I risultati degli accertamenti che, a norma del comma 2, siano stati disposti prima dell’esame testimoniale non precludono l’assunzione della testimonianza”.

La ratio posta alla base di questa scelta del legislatore trova fondamento non solamente nella eguaglianza di ogni individuo quanto a diritti e doveri di fronte alla legge, ma altresì nella necessità di poter disporre del maggior numero possibile di apporti probatori per giungere alla ricostruzione veritiera di un accadimento: le numerose fattispecie di reato previste nel nostro ordinamento e le circostanze più diverse ed imprevedibili con le quali possono venire a realizzarsi impongono il ricorso a modalità probatorie certamente definite e regolamentate, ma che siano anche flessibili, affidabili ed efficaci.

La persona è dunque un elemento frequentemente insostituibile ai fini dell’accertamento della verità giudiziale, poiché avendo avuto esperienza di un evento in specifiche circostanze di tempo e di luogo, ne può riferire e rispondere a domande a riguardo.

Accertato dunque che chiunque può essere chiamato in un processo in qualità di teste, sorge tuttavia l’interrogativo se tale persona sia in condizioni psico-fisiche adeguate a consentirgli di espletare tale funzione testimoniale. Il termine “capacità” nel corso della evoluzione del diritto ha visto alternarsi diverse opinioni e posizioni in merito a come doveva essere inteso ed a quale contenuto ed estensione dovesse avere, fino a che la più recente formulazione del comma 2 dell’art. 196 c.p.p. ha introdotto una importante disposizione. In particolare il legislatore ha attribuito al giudice la facoltà – su impulso delle parti, ma anche d’ufficio – di disporre i più opportuni accertamenti per verificare l’idoneità fisica e psichica della persona a rendere testimonianza.

Si noti come l’articolo in parola abbia avuto cura di specificare che le eventuali indagini sulla capacità del teste debbano essere “opportune” ed eseguite attraverso “mezzi consentiti dalla legge”: i limiti indicati dal legislatore sono chiaramente orientati ad evitare che si possa essere sottoposti ad accertamenti inutili, o ancor peggio illegittimi o lesivi non solo dei propri diritti e della propria integrità psicofisica, ma anche tali da poter alterare la genuinità delle dichiarazioni rese.

Gli strumenti attraverso i quali si procede all’accertamento della capacità del soggetto di rendere testimonianza sono costituiti dalle acquisizioni scientifiche, in primis la perizia, attraverso l’esecuzione di esami medici finalizzati a verificare il livello di funzionamento degli organi sensoriali – in particolare vista ed udito – o di altre caratteristiche fisiche del testimone che possano avere rilevanza ai fini processuali.

Vi è stata in passato divergenza in merito alla possibilità di poter ricorrere a perizia psichiatrica o psicologica sul testimone, alla luce del dettato dell’art. 220, comma 2, c.p.p. il quale pone il divieto di perizie volte a stabilire “in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.[19]

Il citato divieto è stato tuttavia disposto unicamente in riferimento alla persona dell’imputato e non nei confronti degli altri soggetti che prendono parte al processo; tale considerazione ha dunque portato dottrina e giurisprudenza a ritenere che la perizia psichiatrica e/o psicologica non sia preclusa in relazione al testimone.[20]

Non è superfluo pertanto rammentare che è demandabile al perito la verifica della idoneità mentale del teste in relazione alla sua capacità di rendersi conto di quanto è entrato a far parte della sua esperienza e di poter riferire a riguardo, per comprendere così se la sua testimonianza possa essere influenzata o meno da alterazioni psichiche; il vaglio sulla attendibilità del teste – attraverso l’analisi della condotta del medesimo, l’esistenza di riscontri esterni ed anche alla luce della eventuale perizia sulla capacità a testimoniare – è riservato invece unicamente al giudice.[21]

L’oralità delle dichiarazioni del teste e la dialettica con cui vengono assunte in contraddittorio fanno della testimonianza una prova viva, coinvolgente e spesso drammatica. Ciò è particolarmente vero soprattutto quando è la parte offesa del reato ad essere ascoltata quale teste; si pensi ai delitti connotati da un elevato grado di violenza sulla vittima – fisica e/o psichica – e idonei a generare comunemente un forte senso di riprovazione sociale: in tali casi la componente emotiva risulta estremamente pervasiva e rischia di condizionare il sereno accertamento della verità, ancor più quando si tratta di casi che arrivano ad avere rilevanza mediatica. Quando ne ricorrano le circostanze, la necessità di procedere ad un accertamento preventivo circa la capacità di testimoniare della persona chiamata a riferire in giudizio è un passaggio imprescindibile e che può condizionare l’intero corso del giudizio.

[1] F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Giuffrè, 2003.
[2] M. Taruffo, Idee per una decisione giusta, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1997.
[3] F. M. Iacoviello, La motivazione della sentenza penale ed il suo controllo in Cassazione, Milano, Giuffrè, 1997.
[4] Cassazione, Sez. III, sent. n. 768 del 19.01.2016
[5] Cassazione Sez. III Penale, sent. n. 30382 dell’8.07.2016
[6] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, Giuffrè, 1991, p. 208.
[7] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale Parte generale, Bologna, Zanichelli, 2014.
[8] Cassazione Sez. V Pen., sentenza n. 32619/2014
[9] L. de Cataldo Neuburger (a cura di), Testimoni e testimonianze deboli, Milano, Cedam, 2006.
[10] AA. VV., Digesto-Discipline penalistiche, PRI-Q, X, Torino, Utet, 1987.
[11] E. Amodio, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in RIDPP, 1973, p. 326.
[12] G. De Luca, Prova testimoniale e prova documentale in tema di falsità in atti, FI, 1955, II, 13.
[13] Artt. 498 e 499, Cod. Proc. Pen.
[14] Art. 506, co. 2, Cod. Proc. Pen.
[15] D. Carponi Schittar, Esame e controesame, teoria e tecnica, Milano, Giuffrè, 2012, p.223.
[16] Cassaz. 02.06.1993, Puledda, A.. n. proc. pen. 94, 136 c.p.p. commentato e Cassaz. Sez. VI Pen. sentenza n. 27185/14
[17] F. Siracusano, “La testimonianza nel processo penale dall’istruzione a giudizio: scritture, oralità, letture” in La testimonianza nel processo penale, Atti del VIII Convegno E. De Nicola, Foggia 1972.
[18] S. Cipolla, A. Bramante, Idoneità a testimoniare e capacità di partecipare coscientemente al processo, significanze della patologia, in L. de Cataldo Neuburger (a cura di), Testimoni e testimonianze deboli, Milano, Cedam, 2006.
[19] Art. 220 Cod. Proc. Pen.
[20] P. Ferrua, E. Marzaduri (a cura di), La prova Penale, Torino, UTET, 2013, pag. 176.
[21] Cass. Sez. III Pen., sentenza n. 17004/2014