20.01.2021

Quanto è affidabile un testimone?

20.01.2021

Quanto è affidabile un testimone?

Tratto da “La testimonianza nel processo penale: profili sostanziali e criticità tra psicologia e diritto”, Dott. Marco Pino, 2017. Riproduzione riservata

 

In considerazione della particolare funzione che viene chiamato a svolgere il testimone quando depone in giudizio, è opportuno chiedersi se ciò che questi riferisca sia sempre da considerarsi attendibile o meno ed in che misura.

Escluso il caso in cui il teste intenda mentire consapevolmente – ipotesi questa che pone interrogativi di altra natura rispetto ai temi qui affrontati – anche nell’ipotesi in cui il soggetto intenda effettivamente riferire la “verità”, non si può solo per questo ritenere de plano che quanto narrato dal teste sia aderente a quanto realmente accaduto ed entrato a far parte della sua esperienza.

Gli errori della memoria.

La memoria di ognuno è esposta a molteplici eventi che possono alterarne il contenuto, fino ad arrivare in alcuni casi a trasformarlo anche radicalmente.

Si tratta di fenomeni che accadono con ampia frequenza e che non sono necessariamente legati al progredire dell’età del soggetto, poiché vi sono fallacie che possono intervenire nelle diverse fasi del processo mnemonico anche in soggetti giovani, determinando conseguenze specifiche.

Tra i diversi autori che si sono occupati di questa materia, un importante contributo è stato fornito dalle ricerche di Daniel Schacter, il quale ha individuato sette eventi – i cosiddetti “sette peccati della memoria” – che possono influenzare sensibilmente la capacità di ricordare.[1]

i)La labilità:

Il primo di essi, se non altro per la frequenza con cui si presenta, è la “labilità”, ossia la progressiva dimenticanza di ciò che accade in ragione del trascorrere del tempo. Si tratta di un malfunzionamento che si verifica durante la fase di immagazzinamento, dunque successivamente all’avvenuta codifica di una esperienza, ma prima che la medesima venga recuperata. L’immagazzinamento sensoriale e quello a breve termine sono i più esposti alla labilità, proprio in considerazione della volatilità che caratterizza tali magazzini, ma può verificarsi anche nell’immagazzinamento a lungo termine, colpendo in questo caso ricordi destinati ad essere conservati per un periodo di tempo prolungato. Da più di un secolo è stata descritta la cosiddetta “curva dell’oblio”, la quale rappresenta la degradazione del ricordo con il trascorrere del tempo;[2] il decadimento del ricordo non mostra però una progressione regolare, poiché la maggior parte delle informazioni memorizzate svaniscono piuttosto rapidamente nei momenti immediatamente successivi all’evento, mentre in seguito la curva dell’oblio assume un andamento meno severo e tende a rallentare.

Diversi ricercatori hanno poi confermato la validità di tale modello, fornendo evidenza della rapidità con cui inizialmente si deteriora il ricordo, per poi invece rallentare in maniera significativa.[3]

Non è però solo la quantità dei ricordi che svanisce con il tempo, ma anche la loro qualità: il ricordo dei dettagli e dei particolari – vivido e preciso nell’immediatezza del fatto – viene progressivamente meno per essere poi sostituito da ricordi generali, spesso modellati su ciò che usualmente accade, anziché sullo specifico evento cui si riferiscono. Avviene così che in assenza di ricordi precisi e dettagliati, la naturale propensione della persona a figurarsi un quadro completo e coerente rispetto ad un evento a cui ha assistito, la porti a ricostruire i particolari attraverso inferenze o rifacendosi a quanto conosciuto rispetto a situazioni similari e persino aggiungendo dettagli in maniera del tutto casuale, purché confacenti alla congruenza narrativa del ricordo. La labilità spinge dunque il soggetto a sostituire progressivamente i ricordi specifici con ricordi più generici.[4]

La ragione del “fading” dei ricordi non dipende solamente dalla crescente distanza temporale che va interponendosi tra l’accadimento e il soggetto, bensì soprattutto dal fatto che si continui ad accumulare esperienze e situazioni di vita che generano la formazione di nuovi ricordi che si aggiungono a quelli precedenti, sovrapponendosi ed interferendo con il recupero di questi ultimi.

A riguardo è possibile riconoscere due tipi di interferenze, l’una definita “retroattiva”, l’altra “proattiva”. L’interferenza retroattiva ha luogo nel momento in cui l’acquisizione di input successivi interferisce con il ricordo di informazioni già precedentemente acquisite, mentre l’interferenza proattiva determina una difficoltà che agisce in modo speculare: ovvero quanto appreso in precedenza interferisce con le informazioni entrate successivamente a far parte dell’esperienza del soggetto.[5]

ii)La distrazione:

La distrazione è invece una mancanza di attenzione; si tratta di un errore della memoria che interviene nella fase di codifica e che impedisce che l’informazione percepita venga opportunamente elaborata ed appresa così da poter divenire un ricordo persistente nella memoria a lungo termine; nella molteplicità di stimoli ambientali che investono la persona con le relative percezioni, l’attenzione si rivela necessaria per consentire di selezionare solo determinati input considerati rilevanti, ignorando gli altri.[6]

La focalizzazione dell’attenzione può avvenire sia inconsciamente che consciamente e si manifesta principalmente secondo due modalità: l’attenzione selettiva – la quale consente di selezionare solo determinati e omogenei input sensoriali – e l’attenzione divisa, la quale permette invece al soggetto di prestare attenzione a più informazioni o compiti contemporaneamente, purché si pongano su diversi livelli di difficoltà.

L’attenzione divisa è la forma di attenzione più frequentemente implicata nelle attività routinarie, nel corso delle quali è possibile riservare un basso livello di attenzione alle azioni affidate alla memoria procedurale – ad esempio guidare, comportamento che diviene automatico per un conduttore sufficientemente esperto – ed un maggiore livello di attenzione ad operazioni che richiedono una maggiore presenza consapevolezza, quale può essere ad esempio intrattenere una conversazione di lavoro con il passeggero. Questa divisione comporta che le informazioni relative al compito che ha richiesto bassa vigilanza per gran parte non vengano codificate e vadano dunque perse. Rimanendo nell’esempio di cui sopra, potrà facilmente accadere che il guidatore ricordi con molta precisione la conversazione di lavoro, ma non abbia trattenuto che pochi ricordi del percorso compiuto in auto. I comportamenti automatici sono pertanto quelli che maggiormente generano errori di distrazione con conseguente perdita degli stimoli provenienti dall’ambiente, poiché vengono attuati ad un basso livello di consapevolezza.[7]

Può accadere però che – pur volgendo intenzionalmente la nostra attenzione verso un oggetto od una situazione – l’irruzione nella scena di elementi che compaiano improvvisamente comporti il repentino ed automatico spostamento dell’attenzione su tale “novità”, indipendentemente dalla nostra volontà di farlo. La nostra attenzione può dunque essere orientata da eventi esterni che si impongono ed attraggono il soggetto, i quali vengono così codificati e immagazzinati con la possibilità di essere recuperati in seguito.[8]

Questo meccanismo è alla base ad esempio anche del “weapon effect”, laddove in presenza della minaccia di un’arma, l’attenzione del soggetto si concentra unicamente sull’arma e sarà questo l’elemento principale che verrà codificato e ricordato in seguito. Il resto dei particolari della scena non sarà probabilmente ricordato o risulterà sfocato ed impreciso, con conseguente difficoltà di recupero a posteriori.[9]

iii) Il blocco:

Il blocco si manifesta attraverso la difficoltà del soggetto di procedere al recupero di informazioni che sa essere presenti e conservate nella propria memoria.

Si tratta di ricordi correttamente codificati e immagazzinati, i quali tuttavia sembrano sfuggire alla capacità di recupero. La persona ha la certezza di disporre delle informazioni che vuole richiamare, ma è impedita proprio nell’ultima fase del processo di emersione. In tali casi, anche la presenza di indizi di recupero non è spesso sufficiente a superare tale scoglio.[10]

Il più frequente tipo di blocco è quello cosiddetto della parola “sulla punta della lingua”, nel corso del quale si sperimenta la fastidiosa sensazione di essere davvero sul punto di ricordare, ma senza riuscirci. Tale errore della memoria si verifica in misura maggiore quando l’informazione che si vuole recuperare è debolmente collegata con altre informazioni e conoscenze a disposizione del soggetto che potrebbero facilitare il recupero fungendo da stimolo.[11]

iv) L’erronea attribuzione del ricordo:

L’erronea attribuzione del ricordo si verifica quando viene attribuita un’origine sbagliata ad un’informazione recuperata dalla memoria. Si tratta di un errore che riguarda la cosiddetta “memoria della fonte”, ovvero quella memoria che consente di ricordare dove, come e quando sono stati acquisiti determinati ricordi: il ricordo del fatto è integro e corretto, ma il soggetto si confonde rispetto all’origine del medesimo.

L’erronea attribuzione del ricordo può però anche prendere la forma del “falso riconoscimento”, il quale può essere definito come una sensazione di familiarità per qualcosa che in realtà si sta vedendo o sperimentando per la prima volta.[12]

Questo tipo di errore è tra i più frequenti nelle testimonianze giudiziali, poiché la narrazione fornita dal teste può essere precisa e congruente – tale da risultare altamente credibile – ma assolutamente infondata rispetto al reale accadimento dei fatti.

Si pensi all’identificazione visiva del colpevole da parte della vittima di un reato; si tratta di un mezzo di prova di grande rilievo, ma anche quello che determina il maggior numero di errori. Autorevole dottrina ha sottolineato che “il problema dell’identificazione del colpevole è il più angoscioso che possa sorgere in un processo penale: riconoscimenti errati hanno fatto morire nella disperazione del carcere o nell’orrore del patibolo innocenti che la conoscenza di elementari nozioni di psicologia giudiziaria avrebbe potuto salvare”.[13]

Il falso riconoscimento è un’insidia che può riguardare chiunque, anche se non chiamato a testimoniare in un processo, in quanto può essere facilmente generato da banali stimoli presenti nella vita quotidiana. Si consideri ad esempio il fenomeno del “deja vu” – la sensazione di aver già vissuto una situazione, sebbene non si riesca a rammentare alcun dettaglio specifico rispetto alla medesima – il quale sembra avere origine proprio in un errore di attribuzione. Recenti studi hanno mostrato che in questo caso l’elemento decisivo ai fini dell’induzione in errore è costituito dalle emozioni generate da una determinata esperienza attuale, la quale riporta il soggetto ad analoghe emozioni già vissute precedentemente; non sarebbe pertanto l’esperienza in sé ad essere stata già vissuta, bensì solamente le emozioni generate da quella situazione. Ciò determina il richiamo del ricordo che ha generato quella sensazione, immagazzinata a fronte però non di quella stessa esperienza, ma di una diversa vissuta in passato.[14]

La presenza di un forte senso di familiarità riguardo ad una persona, un oggetto o un avvenimento, in assenza però di ricordi specifici a riguardo costituisce elemento di allarme rispetto alla possibilità di trovarsi di fronte ad una manifestazione di erronea attribuzione del ricordo. La consapevolezza riguardo a tale aspetto è pertanto fondamentale al fine di ridurre le deleterie conseguenze delle attribuzioni erronee nell’ambito delle testimonianze giudiziali.[15]

v) La suggestionabilità:

La suggestionabilità è la tendenza ad introdurre nei propri ricordi personali informazioni fuorvianti provenienti da fonti esterne. E’ una alterazione della memoria strettamente legata all’erronea attribuzione del ricordo, in quanto per trasformare suggestioni esterne in ricordi propri è necessario passare attraverso il meccanismo della errata attribuzione. In merito si noti che l’errata attribuzione del ricordo può avere luogo anche in assenza di suggerimenti specifici, a differenza della suggestionabilità, la quale necessita sempre di una influenza esterna.[16]

La ricerca già da tempo ha fornito ampie e documentate evidenze dell’impatto della suggestionabilità sulla memoria, a conferma che nei ricordi personali di un soggetto possono essere introdotti non solamente dettagli, ma anche eventi più articolati senza che siano mai stati realmente vissuti.[17]

In particolare l’induzione di falsi ricordi di esperienze infantili rappresenta un elemento che può generare gravi distorsioni sull’andamento e sull’esito del giudizio; basti pensare ad esempio alle difficoltà di accertamento della verità che pongono i casi di procedimento per abuso su minori quando sono implicati soggetti che solo a distanza di anni – non di rado da adulti e nel corso di psicoterapia – sembrano recuperare il ricordo di violenze che avrebbero subito da bambini.[18]

L’impossibilità di immagazzinare in memoria ogni singolo dettaglio relativo alle proprie esperienze espone ognuno di noi alla presenza di aree più o meno estese di vuoto rispetto a quanto vissuto; è in tali vuoti che può introdursi la suggestione esterna e concorrere a formare un falso ricordo. E’ stato peraltro provato che la presenza o l’induzione di immagini mentali relative ad un certo evento – magari utilizzate a fini terapeutici, attraverso esercizi di immaginazione o comunque in presenza di narrazioni interiori fantasticate – costituisce una circostanza che aumenta ampiamente la probabilità di creazione e permanenza dei falsi ricordi[19]; parimenti è stato dimostrato che anche l’ipnosi può facilmente condurre al medesimo risultato.[20]

L’utilizzo di tecniche immaginative, di regressione ipnotica o similari, pur se finalizzato a fini terapeutici, può dunque costituire elemento di profonda alterazione della memoria del soggetto, rendendo di fatto impossibile – se non vi sono riscontri esterni – distinguere il vero ricordo da quello artefatto.

vi) La distorsione:

L’errore legato alla distorsione consiste nella alterazione del ricordo di eventi passati determinata dall’influenza esercitata dalle esperienze, dalle conoscenze e dalle sensazioni attuali.[21]

La distorsione può influenzare il ricordo di ciò che è accaduto in tre modi: attraverso la “distorsione da coerenza”, mediante la “distorsione da cambiamento” oppure a mezzo della “distorsione egocentrica”.[22]

La distorsione da coerenza implica l’alterazione del ricordo di ciò che è stato vissuto nel passato al fine di adattarlo alle conoscenze ed alle convinzioni attuali; si tratta di un meccanismo che mira a preservare la coerenza nel presente del soggetto, a discapito di quegli elementi presenti nella sua storia e che si pongono invece in contrasto, perlomeno nella percezione della persona.

La distorsione da cambiamento produce invece l’enfatizzazione della differenza tra ciò che era stato sperimentato e vissuto nel passato rispetto ad un certo evento e ciò che invece l’individuo prova o crede nel presente rispetto alla medesima esperienza.

Diversi studi hanno dimostrato che si tratta di un errore della memoria soggettiva, la quale attribuisce un marcato cambiamento ad una realtà che non è invece oggettivamente mutata.[23]

Infine, la distorsione egocentrica – anche detta da “autoesaltazione” – comporta nel soggetto una ingiustificata ed esagerata rappresentazione del cambiamento di sé che sarebbe avvenuto tra passato e presente, nel tentativo di apparire “migliore” rispetto a quanto non fosse precedentemente. Quest’ultima distorsione spinge ad esempio la persona ad enfatizzare la propria evoluzione positiva in ambito professionale o relazionale, o può ammantare il ricordo di singole azioni compiute nel passato, arricchendole di particolari e circostanze idonee a descrivere una condotta più coraggiosa, più efficiente o comunque più brillante di quanto in realtà non sia effettivamente stata.[24]

vii) La persistenza:

Un’ ultimo errore della memoria è la persistenza, ossia il ricordo intrusivo di eventi che si vorrebbe poter dimenticare. Si tratta in genere di ricordi relativi ad esperienze caratterizzate da un forte grado di emotività, capaci di generare rappresentazioni vivide e ricorrenti che emergono improvvise alla mente pur in assenza della volontà cosciente del soggetto di recuperarli ed anzi procurando forte disagio causato dal dover rivivere emozioni disturbanti.

Una manifestazione del fenomeno della persistenza è la presenza dei “ricordi lampo”, caratterizzati dal fatto di riportare alla mente immagini precise e dettagliate di quando e dove il soggetto si trovava nel momento in cui è venuto a conoscenza di accadimenti scioccanti. Affinché l’evento si imprima nella memoria e possa poi diventare un ricordo lampo, è necessario che il fatto determini una forte sorpresa ed una conseguente ed altrettanto marcata attivazione emozionale nell’osservatore; in assenza di concomitanza di questi due elementi non sembra possibile la formazione di ricordi lampo.[25]

Questa tipologia di ricordi può non essere molto accurata, ma i ricercatori hanno provato che sono comunque in grado di mantenere un livello di precisione solitamente maggiore rispetto ad altri ricordi coevi, ma relativi ad eventi ordinari dei quali siamo venuti a conoscenza attraverso le medesime modalità. Inoltre, la circostanza che l’evento oggetto dei ricordi lampo sia di natura straordinaria, porta ad una successiva maggiore frequenza di recupero e di richiamo; ciò contribuisce a rafforzarne la memorabilità, diminuendone però progressivamente la precisione.[26]

A livello cerebrale sembra che i ricordi lampo siano strettamente correlati al funzionamento dell’amigdala; tale struttura risponde infatti agli eventi che generano un forte arousal, rilasciando ormoni correlati allo stress che aumentano il livello generale di attivazione del cervello e del corpo, preparandoli ad una situazione di pericolo e potenziando in tal modo anche l’attenzione e l’immagazzinamento in memoria.[27]

 

Ricordare in giudizio.

La complessita del procedimento di memorizzazione, di recupero e di narrazione del ricordo – caratterizzato dalle “trappole della memoria” – si arricchisce di ulteriori elementi di criticità quando viene richiesto al soggetto di ricordare nell’ambito di un procedimento giudiziale ed in particolare di un procedimento penale.

In primo luogo, chi è chiamato a ricordare non lo fa usualmente per un’esigenza propria, ma in veste di testimone rispetto a fatti che vedono imputati altri soggetti. Ciò comporta che quanto verrà riferito avrà in ogni caso ricadute sulla vita di altre persone – le quali possono essere sconosciute, ma anche invece ben conosciute dal teste – determinando nel dichiarante la consapevolezza della propria responsabilità rispetto a ciò che dirà.

Quando la qualità di teste coincide con quella di vittima del reato per cui si procede, la pressione emotiva è ancora maggiore poiché vi è un coinvolgimento diretto, nonché un personale interesse rispetto all’esito del processo.

Si pensi come l’accuratezza del ricordo possa essere un aspetto quasi del tutto trascurabile quando tra amici – magari nel corso di una cena – si rammenti una vacanza trascorsa insieme e vi sia incertezza se un particolare episodio sia accaduto un certo giorno o un altro e chi fosse presente o meno all’evento, ma divenga invece determinante nel corso di un procedimento per gravi reati dove sono in gioco valori e temi fondamentali per ogni persona come lo sono il diritto alla liberta e il diritto ad avere giustizia; le aspettative in un giudizio penale sono infatti altrettanto vive, seppure nascenti da prospettive antitetiche, sia per l’imputato che per la parte offesa.

Il testimone può sovente sentirsi finanche investito in una certa misura del ruolo di giudice, soprattutto quando ritenga che la propria deposizione risulti determinante, tanto da portarlo – anche inconsapevolmente e senza volonta di mentire – a proporre una narrazione che propenda per la decisione che ritenga intimamente più giusta nel caso di specie.

Appare evidente che tale ipotesi costituisce non solamente una aberrazione della funzione e del ruolo del teste, ma altresì non sfugge come in ogni caso la convinzione del testimone difficilmente possa essersi compiutamente formata, mancando necessariamente al medesimo la cognizione di tutti gli elementi che invece il giudice ha a disposizione al termine dell’istruttoria dibattimentale per emettere la propria decisione.[28]

Altrettanto non trascurabile è l’impatto emotivo che puo cogliere il teste nel deporre in un’aula di tribunale, laddove si trova seduto solo davanti ad un microfono – collocato tra il giudice ed i banchi dell’accusa e della difesa – spesso alla presenza dell’imputato.

Anche la modalità con cui vengono poste le domande sia da parte dell’accusa che della difesa – scarsissima attenzione viene però riservata nelle aule di giustizia all’aspetto non verbale e para verbale della comunicazione, il quale invece è in grado di determinare effetti estremamente rilevanti sull’effetto complessivo della comunicazione ed in particolare riguardo alle risposte del teste ed alla loro valutazione[29] – possono generare effetti distorsivi sia sul recupero del ricordo che sulla esposizione del medesimo.

Non si dimentichi poi che il teste può trovarsi al centro della cross examination, terreno di scontro tra contendenti agguerriti quali sono accusa e difesa e dove può provare la spiacevole sensazione di essere unicamente uno strumento in balia delle strategie e dei fini altrui.

Certamente vi è sempre il giudice a vigilare sulla corretta assunzione della prova testimoniale, ma non raramente le parti agiscono con misurata abilita all’interno di limiti che non mettono in allarme il giudice spingendolo ad intervenire, ma che possono mettere comunque a disagio il teste.

Si consideri inoltre l’effetto cosiddetto di “compliance”, che si manifesta nella tendenza del testimone a riferire ciò che l’interlocutore vuole sentirsi dire; la compliance interviene soprattutto quando chi pone le domande viene ritenuto autorevole ed è un fenomeno che viene chiaramente agevolato dalla pressione psicologica generata dal contesto istituzionale e rigidamente formale del processo, nonché dalla motivazione a fornire informazioni utili.[30]

In simili condizioni, per nulla infrequenti, la genuinità della prova testimoniale subisce evidenti alterazioni; è stato autorevolmente osservato che la testimonianza diviene in sostanza un compromesso tra le richieste dell’interrogante e la rielaborazione dell’interrogato.[31]

La minaccia delle sanzioni stabilite dal legislatore per il testimone infedele induce poi molti soggetti a temere di poter essere sottoposti a conseguenze giudiziali pur non avendo intenzione di mentire, circostanza questa che va a sommarsi alle altre fonti di stress connaturate con la deposizione in giudizio.

La stessa formula di rito che deve essere pronunciata prima di deporre, costituisce un avvertimento che pone il teste stesso al centro di un paradosso che non ha soluzione: l’art. 497 c.p.p. recita infatti “Prima che l’esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità. Salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere quanto a mia conoscenza […]”.

Viene dunque chiesto al teste di giurare di dire la verità; questo però non è mai possibile, per nessun testimone.

Ciò che una persona può al meglio riferire in giudizio è unicamente ciò che conosce rispetto all’evento su cui viene chiamato a deporre, consapevole che tale prospettiva non riproduce l’esatto svolgersi dei fatti, ma solo il modo in cui quel soggetto ha percepito, codificato, immagazzinato e recuperato quell’evento; l’unico giuramento possibile e logico sarebbe pertanto quello di giurare di dire ciò che egli crede essere vero.

L’art. 497 c.p.p. genera dunque inevitabilmente un paradosso della testimonianza; il testimone, obbligato a dire la verità pur sapendo di non poterla realmente conoscere, si trova ad un bivio:

-se decide di giurare di dire il vero, significa che promette solennemente di tenere una condotta che sa di non poter realizzare. Diventa pertanto un falso testimone;

-se invece decide di tacere, poiché sa di non poter tenere fede al giuramento che gli viene chiesto, allora diviene un testimone reticente.

Ebbene, in entrambi i casi il teste si espone al rischio di sanzione per aver violato gli obblighi che gli sono imposti dall’art. 198 c.p.p. “1.Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni date dal medesimo per le esigenze processuali e di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte [c.p.p. 497, comma 2]. 2.Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale [c.p.p. 63]”.[32]

Dunque non è assolutamente infrequente che sussista il timore del testimone di non essere creduto – soprattutto nel caso in cui il teste sia anche la vittima del reato – o di incorrere in qualche violazione di legge, circostanze queste che possono facilmente indurlo a correggere, anche inconsapevolmente, ciò che del proprio racconto non risulti chiaro – in primo luogo a se stesso – attraverso integrazioni, inferenze ed anche omissioni attuate senza la finalità di mentire, bensì nel tentativo di rendere una narrazione coerente e lineare laddove gli sembri che non lo sia.[33]

Il contesto nell’ambito del quale viene assunta la testimonianza – intendendosi per contesto non solamente l’aula di udienza in cui avviene la deposizione, ma anche tutte le altre variabili che intervengono nel caso di specie quali possono essere appunto le modalita interlocutorie utilizzate per esaminare il teste, il clima psicologico generato degli attori processuali, le peculiarita culturali e sociali del territorio ove si svolge il processo, la natura dei fatti oggetto del procedimento penale – esercita pertanto una influenza rilevante sui meccanismi psichici di recupero del ricordo e di formulazione di quanto viene riferito in relazione alle domande poste.[34]

 

La testimonianza tra errori, distorsioni, suggestioni e false credenze:

Al teste non viene semplicemente chiesto di ricordare, ma di ricordare per un fine ben preciso ed all’interno di un setting idoneo a generare stress; l’aula d’udienza non è un luogo di pace, ma di contesa – spesso aspra – tra parti in conflitto per le quali i testimoni costituiscono elementi di prova da utilizzare a proprio vantaggio.

La narrazione che viene portata nel giudizio penale attraverso la testimonianza rappresenta come si è visto l’esito di una complessa interazione di fattori endogeni ed esogeni – che agiscono a livello di coscienza della persona, ma più spesso al di fuori della sua consapevolezza – tali da portare a risultati estremamente eterogenei e di difficile interpretazione al fine della valutazione della attendibilità di quanto raccontato.[35]

E’ possibile che la persona abbia un ricordo molto particolareggiato rispetto ad un determinato evento a cui ha assistito, che sia in grado di richiamarlo alla memoria ricordando un elevato numero di particolari e che decida di riferire tutto cio che sa. Ci si troverebbe in questo caso di fronte ad una testimonianza ideale – invero alquanto rara – capace di fornire elementi di comprensione ai fini dell’accertamento della verità. E’ anche possibile che il testimone ricordi poco o niente dei fatti su cui viene sentito e non riferisca alcunché in giudizio. In tale situazione ci si troverebbe comunque di fronte ad una deposizione veritiera e coerente, sebbene incapace di portare elementi utili al giudizio.

Ben piu complessa e invece l’ipotesi in cui il soggetto proponga una narrazione articolata, coerente e particolareggiata, ma relativa a fatti che non sono veritieri. Ciò non perche voglia consapevolmente mentire, bensì perché in totale buona fede rammenti eventi non accaduti o difformi da quanto realmente avvenuto.

Come già visto – accertata l’idoneità del soggetto a testimoniare – l’attendibilità della deposizione risulta strettamente correlata con l’accuratezza del ricordo, qualità quest’ultima indipendente dalla quantità di particolari rammentati dal soggetto. La narrazione anche di un solo elemento, ma realmente presente nell’evento ricordato, consente di ritenere totalmente attendibile la relativa testimonianza; al contrario, un racconto articolato e ricco di dettagli, ma privo di riscontri o sconfessato da altri elementi di prova, risulta chiaramente non credibile.[36]

In proposito è bene rammentare che la capacità di ricordare con precisione un fatto al quale si è assistito è strettamente influenzata dalla capacità di dare un nome ed un significato a ciò che si è sperimentato. In assenza di capacità di attribuire un significato a quanto viene percepito – come ad esempio accade in alcune forme patologiche di deficit percettivo, dette prosopagnosia[37] – la persona è in grado di descrivere ad esempio un oggetto o un volto, ma non di riconoscerlo. Questa capacità è pertanto connessa con la memoria e con la possibilità di recuperare un ricordo, poiché consente di associare quanto percepito ad una rappresentazione già presente in memoria. Le conoscenze possedute esperiscono dunque una rilevante influenza sui processi di percezione, di codifica e di immagazzinamento nella memoria a lungo termine, favorendo oppure ostacolando la capacità di ricordare e l’accuratezza del ricordo stesso. Si tratta di un processo definito “top down”, che si muove in ricaduta dalle conoscenze già possedute per giungere a dare un significato alla percezione.[38]

I test proiettivi possono fornire un buon esempio di come le conoscenze e le esperienze proprie di ogni singolo individuo possano influire sulla percezione e sulla successiva interpretazione e codifica, generando risultati anche molto diversi. Di fronte all’esposizione ad uno stimolo ambiguo o scarsamente strutturato – come ad esempio quelli proposti nel Test di Rorschach – ogni soggetto interpreta il percepito alla luce di ciò che conosce, pensa e crede, dando così un significato che è proiezione dell’osservatore medesimo.

Si pensi ora ad una figura umana che si muove ad una certa distanza dall’osservatore, in un parco di notte, con un cappello in testa e stringendo qualcosa in mano. Si immagini poi che l’alternanza tra le fioche luci dei lampioni e l’oscurità rendano difficoltosa la percezione dei particolari della scena. Ciò che ha in mano l’uomo è un’arma oppure no? O forse è un oggetto sottratto a qualcuno? A quale etnia appartiene quell’uomo? Qual è il colore della sua pelle? E’ certo che sia un uomo o potrebbe forse essere una donna? Ha un atteggiamento furtivo oppure si muove a passo rapido per il freddo?

Immaginiamo ora che la persona che abbia intravisto quella figura nel buio, tempo dopo venga interrogata dalle forze dell’ordine nel tentativo di scoprire il possibile autore di un crimine commesso nei dintorni di quel parco. E’ possibile che il testimone – il quale non ha potuto avere oggettiva conoscenza di una serie di particolari di chi ha intravisto nel buio – interpreti e rielabori quanto ha percepito sulla base della suggestione delle domande poste dalla polizia, riempiendo i propri vuoti di conoscenza attraverso inferenze ed integrazioni, aggiungendo probabilmente in modo inconsapevole dettagli che in realtà non ha potuto osservare, ma che ha creduto di aver visto.

In misura più o meno marcata per ciascuno di noi, l’attività di interpretare ciò che abbiamo visto o vissuto è inevitabile e sfugge al controllo della consapevolezza, poiché ogni percezione è necessariamente filtrata dalla soggettività di chi la sperimenta.

Il ricordo stesso è il risultato di una rielaborazione e pertanto non può esservi memoria esattamente fedele alla realtà oggettiva che ne costituisce il contenuto. Maggiore diventa la complessità dei particolari da rammentare o l’ambiguità della scena che si è osservata, maggiore potrà essere la discrepanza tra realtà sostanziale e realtà narrata dal teste.

Già nei primi decenni del secolo scorso i ricercatori avevano individuato quelli che sono stati definiti “schemi di conoscenza[39], ovvero “blocchi di costruzione di conoscenze” precostituite sulle quali ci basiamo nel recupero dell’informazione dalla memoria, nell’organizzazione delle azioni, nella determinazione di scopi e sotto scopi, nell’assegnazione delle risorse e, in generale, nell’orientamento del flusso di elaborazione dei dati. Tutte le informazioni vengono raccolte in unità – gli schemi, appunto – che costituiscono le strutture di conoscenza che consentono la rappresentazione di concetti generici depositati nella memoria.

Esistono schemi di rappresentazione della conoscenza per ogni tipo di concetto, quali sono ad esempio gli oggetti, le situazioni, gli eventi, le sequenze di azioni ecc. Lo schema contiene in sé, già precostituite, le interrelazioni e le dinamiche esistenti – o supposte tali – tra gli elementi costituenti il concetto stesso. Ogni persona costruisce i propri schemi, i quali divengono la propria “teoria informale” sulla natura degli eventi, degli oggetti e delle situazioni sulla base di quanto già sperimentato o appreso. Attraverso gli schemi disponibili, interpretiamo il mondo e le esperienze vissute in un dato momento, applicando così inevitabilmente la nostra personale teoria di come funziona la realtà alla realtà stessa. Gli schemi tuttavia non sono rigidi, bensì attivi e capaci di evolversi attraverso le stesse esperienze che concorrono ad interpretare.[40]

Gli schemi non operano solamente riguardo alla percezione ed alla interpretazione di quanto percepito, ma esplicano la loro influenza anche nel processo di immagazzinamento e di recupero del ricordo “Vi è in questo senso una specie di continuum tra comprensione e memoria: nella prima, l’interpretazione viene imposta principalmente sui «frammenti sensoriali in ingresso, mentre nella seconda essa avviene principalmente su «frammenti di memoria». In entrambi i casi si usano gli schemi. Occorrerebbe inoltre sottolineare che anche se si può pensare al ricordo come alla percezione che ha come modalità la memoria, la memoria episodica su cui di solito esso si basa non è costituita soltanto da frammenti dell’input sensoriale iniziale, ma da una rappresentazione frammentaria della nostra interpretazione di quell’input”.[41]

Dunque gli schemi vengono utilizzati anche per reinterpretare i dati immagazzinati in memoria, i quali a loro volta sono il risultato dell’interpretazione di quanto percepito; pertanto il recupero del ricordo comporta la rielaborazione di informazioni già antecedentemente elaborate. Ciò che si ricorda è l’interpretazione dell’interpretazione di un evento, anziché l’evento stesso.

Vi sono poi gli “script” – i copioni – analoghi agli schemi, ma più complessi e specificamente indirizzati alle rappresentazioni di situazioni sociali; anch’essi sono strutture concettuali presenti in memoria che intervengono nella fase di codifica e influenzano la memorizzazione, alla luce delle quali valutiamo gli eventi sociali.

Gli stereotipi invece – dal greco “stereos” [duro, solido] e “typos” [impronta, immagine, gruppo] a significare “immagine rigida” – sono costituiti da una credenza, o da una pluralità di credenze, sulla base delle quali un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche ad un altro gruppo di persone. Tale visione dell’altro non si basa su elementi logici e scientifici – o comunque dotati di concreto fondamento – ma costituisce una valutazione alogica e inflessibile, che attribuisce a tutti gli individui di un certo gruppo le stesse identiche peculiarità. Si tratta di una sorta di euristica, di una scorciatoia mentale che qualche volta comporta effettivamente un vantaggio, ma che troppo facilmente può portare a gravi errori di valutazione.[42]

Gli schemi mentali, gli script e gli stereotipi producono ricadute negative sulla testimonianza al pari delle altre forme di inferenza e di deduzione apodittiche, poiché inducono alterazioni nel ricordo del dichiarante – il quale ne è spesso inconsapevole – e lo spingono a credere che quanto va narrando sia assolutamente aderente a ciò a cui ha assistito.

Altrettanto insidiose e diffuse sono le false credenze sul funzionamento della memoria, propria e altrui. Tra le più comuni: i) un ricordo è vero per il solo fatto che sia emerso alla consapevolezza della mente (verità dell’emergente); ii) ogni evento lascia in memoria una traccia unica ed indipendente che non può confondersi con le altre tracce mnestiche (indipendenza delle singole tracce); iii) un soggetto non potrebbe mai ricordare di avere commesso un crimine che in realtà non ha mai commesso (egoismo della memoria).[43]

Si tratta di luoghi comuni estremamente diffusi, ma infondati e fuorvianti; nutrire convinzioni errate sul funzionamento dei meccanismi della memoria amplifica il rischio di commettere gravi errori sulla valutazione della testimonianza: si tratta di un ulteriore fonte di distorsione che va ad aggiungersi alle molteplici altre già di per sé insite nei processi mnemonici.

E’ necessario infine porre attenzione al fenomeno dei “falsi ricordi”, ovvero alla possibilità che un soggetto ricordi esperienze che non ha mai vissuto.

Le ricerche hanno dimostrato che in presenza di determinate condizioni è possibile che vengano sviluppati ricordi non veritieri, non solamente limitati alla modifica o all’aggiunta di particolari rispetto a fatti realmente sperimentati, ma capaci anche di creare intere scene e situazioni mai avvenute.[44]

Gli studi eseguiti a riguardo hanno rivelato in primo luogo che la probabilità di sviluppare falsi ricordi aumenta considerevolmente in presenza del cosiddetto “effetto disinformazione”: quando persone che hanno assistito ad un evento vengono in seguito esposte a informazioni nuove ed ingannevoli circa quel medesimo evento, è stato osservato che i ricordi di tali soggetti risultano spesso distorti ed alterati. La disinformazione è dunque in grado di intervenire sui ricordi del soggetto e può esplicare i propri effetti non solamente in situazioni particolari – quali ad esempio un interrogatorio condotto con modalità suggestive – ma anche nella vita quotidiana quando i ricordi di un evento progressivamente si modificano a causa dell’intrusione di elementi esterni successivi che vanno ad alterarli, in ciò agevolati dal trascorrere del tempo che rende vaga la memoria originaria e favorisce il processo di sostituzione.

Le ricerche sulla costruzione dei falsi ricordi infantili si sono rivelati molto utili per comprendere il processo di costruzione dei falsi ricordi in . Questi vengono facilitati dalla presenza di “suggerimenti” esterni che innescano un processo di elaborazione immaginifica dell’informazione fino a introdurla nel panorama mnemonico della persona, divenendo così parte della memoria episodica.

E’ emerso ad esempio che uno dei contesti ove maggiore è la probabilità che si sviluppino falsi ricordi – soprattutto infantili – è quello degli interventi psicoterapeutici.

L’aspettativa del recupero di un ricordo traumatico che spesso il terapeuta trasferisce sul paziente – nonché le suggestioni che vengono anche involontariamente veicolate durante il percorso di cura – costituiscono un humus che può rivelarsi favorevole alla produzione di eventi e situazioni fantasticate relative al proprio vissuto. La libera ricerca del ricordo di un’esperienza lontana nel tempo si può pertanto confondere con l’esercizio dell’immaginazione, portando ad un effetto che è stato definito di “dilatazione dell’immaginazione”: immaginare un evento, soprattutto se ripetutamente, lo rende più familiare e tale familiarità può venire erroneamente associata ai ricordi di un passato lontano – magari nell’infanzia – anziché all’atto dell’immaginazione.

Si può verificare in questo modo una confusione sulla fonte dell’informazione, con la conseguente produzione di un ricordo alterato; la sperimentazione ha scientificamente provato che la probabilità di un soggetto di ricordare un’azione che non ha compiuto aumenta in maniera direttamente proporzionale alle volte in cui il medesimo individuo immagina tale azione.[45]

L’impianto dei falsi ricordi viene dunque favorito dalla presenza di suggerimenti esterni e tra questi assume particolare incisività la conferma di un certo evento da parte di un’altra persona, soprattutto se autorevole o comunque ritenuta affidabile dal soggetto indotto a ricordare. Tale suggestione può arrivare sino al punto di portare ad una falsa confessione sulla propria colpevolezza.

Alcuni ricercatori hanno realizzato un esperimento in cui venivano studiate le reazioni di persone falsamente accusate di aver danneggiato un calcolatore premendo il tasso sbagliato; i soggetti, i quali non avevano effettivamente premuto quel tasto, negavano inizialmente l’addebito, ma molti di loro giungevano poi ad ammettere di averlo fatto quando interveniva un complice che affermava con sicurezza di averli visti eseguire quell’azione. Alcuni di essi aggiungevano addirittura particolari fittizi che risultavano compatibili con la – falsa – convinzione che gli era stata indotta. In riferimento all’ambito giudiziario, questi studi hanno dimostrato che una falsa prova a carico o anche la sola suggestione che la stessa possa sussistere, può indurre talune persone ad accollarsi la responsabilità per un fatto che non hanno commesso, arrivando anche a sviluppare falsi ricordi per corroborare la convinzione della loro colpevolezza e costruire uno scenario congruente.[46] Molteplici ricerche hanno evidenziato che la causa principale che porta alla creazione di falsi ricordi è la pressione sociale affinché la persona ricordi.[47]

Il contesto del trattamento psicoterapico non di rado è quello da cui prendono origine numerosi procedimenti penali per reati di abuso sessuale, a fronte del recupero del ricordo – usualmente a distanza di anni dall’evento – di violenze subite magari in tenera età. Molti studi hanno rivelato che le tecniche spesso utilizzate in terapia sono particolarmente idonee a promuovere la creazione di falsi ricordi; ciò non significa che tutti i ricordi così recuperati siano artefatti, ma che vi è un’alta probabilità che possano esserlo.

L’ipnosi, in primis, costituisce una tecnica molto delicata ed i ricordi recuperati attraverso di essa presentano un elevato grado di inaffidabilità: questo accade poiché nel corso dell’induzione ipnotica il paziente si trova in uno stato di “aumentata suggestionabilità” [48], in cui si abbandona completamente al terapeuta. Tale condizione di apertura all’intervento altrui può essere molto efficace ad esempio per aiutare la persona a mutare certi comportamenti – come smettere di fumare o diminuire l’assunzione di alcool – ma non rappresenta un metodo per il recupero di ricordi passati che possa mettere al riparo dalla creazione di falsi ricordi, specialmente se si tratta di memorie di eventi traumatici che sarebbero stati vissuti nell’infanzia ed addirittura nei primissimi anni di vita.[49]

In particolare, riguardo all’ipnosi regressiva – attraverso la quale si riuscirebbe a far risalire il paziente ai ricordi anche dei primi tre anni di vita – è bene rammentare che nel corso della prima infanzia il sistema nervoso non raggiunge un livello di sviluppo sufficiente da consentire al bambino di codificare le percezioni e dunque di poterle immagazzinare come ricordi; non si tratta in sostanza di un problema di recupero del ricordo in epoca successiva, bensì di una impossibilità di formazione del ricordo stesso. Si comprende pertanto come vi debba essere assoluta cautela – soprattutto in ambito giudiziale – nella valutazione delle memorie emerse attraverso l’ipnosi.[50]

L’interpretazione dei sogni è un’altra tecnica usata con notevole frequenza da molti terapeuti, soprattutto di tradizione freudiana. E’ pacifico come il terapeuta – anche senza ricorrere a particolari tecniche – abbia di per sé un notevole potere di persuasione sul paziente, circostanza questa che predispone quest’ultimo a credere e ad affidarsi. Ebbene il sogno è una manifestazione per lo più misteriosa – tanto che è necessario interpretarlo – ed alla quale si cerca di dare un significato. Come noto il contenuto manifesto non è certamente coincidente con il significato profondo, celato tra simboli e rappresentazioni che non rivelano mai direttamente il proprio significato. I simboli tuttavia non hanno la stessa esatta valenza per ogni paziente ed un medesimo contenuto manifesto può fare riferimento a molteplici contenuti latenti a seconda dei diversi soggetti. Diventa quindi estremamente complesso avere certezza di quale sia il reale significato di un sogno per uno specifico individuo; ciò non di meno la suggestione indotta dall’interpretazione del terapeuta, anche quando sbagliata, può divenire “verità” per il paziente e costituire la base per la costruzione di false memorie ad essa congruenti.

Non si vuole qui sostenere che ogni interpretazione dei sogni sia errata, ma che non vi è un metodo sicuro per discernere quando lo sia, sicché potenzialmente l’errore è sempre in agguato e sfugge alla possibilità di essere individuato.

Sul punto, sono numerosi gli studi che hanno confermato come l’interpretazione dei sogni – se incautamente utilizzata – possa indurre le persone a convincersi di avere sperimentato una determinata situazione, quando invece non è mai accaduto.[51] Una breve seduta terapeutica, della durata di circa trenta minuti, è idonea ad esperire effetti tali da poter mutare in modo radicale ciò che una persona pensa possa essere successo nel proprio passato. Non necessariamente il paziente svilupperà ricordi non veritieri, ma certamente l’interpretazione del sogno può costituire un’ottima base per la creazione di ricordi autobiografici falsi: “si può immaginare il potenziale effetto deleterio di una terapia tutta indirizzata a convincere un paziente che un certo fatto – come ad esempio un abuso sessuale – sarebbe accaduto nel suo passato, se solo dopo trenta minuti di interpretazione di un unico sogno vi sono individui che arrivano a credere di essere stati abbandonati dai genitori quando erano piccoli. In una terapia mal condotta, quando il terapeuta cerca di imporre al paziente il proprio modo di interpretare i problemi, vi è il pericolo che il paziente modifichi la propria conoscenza autobiografica aggiungendo anche episodi di vita che in realtà non ha mai vissuto. La terapia, uno strumento che certamente aiuta il paziente a cambiare in meglio, può anche spingerlo a cambiare in peggio se utilizzato con superficialità e scarsa professionalità”.[52]

L’immaginazione guidata è un’altra tecnica che può indurre falsi ricordi[53]; il terapeuta propone al paziente di immaginare una situazione o un evento, aiutandolo a sviluppare la rappresentazione fantasticata di quel tema. Il soggetto narra a voce alta ciò che sta immaginando, accompagnato e guidato dal conduttore che lo invita a descrivere particolari e sensazioni. Può altresì accadere che sia il terapeuta a sviluppare un racconto immaginario e che il paziente lo ascolti in silenzio, seguendo la narrazione e generando rappresentazioni mentali su quanto percepisce. Anche riguardo alle tecniche che si basano sull’immaginazione sono stati condotti diversi studi, i quali hanno evidenziato come tali approcci favoriscano il convincimento di aver vissuto esperienze mai accadute. Il falso ricordo si arricchisce poi progressivamente di particolari e dettagli che vanno a completare il quadro della falsa memoria, consolidandone il radicamento.[54]

L’immaginazione è dunque una leva potente che può modificare in modo sostanziale la memoria autobiografica di una persona e condizionarne indirettamente anche il futuro. Di questo era ben consapevole anche il reverendo, nonché matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson, il quale – sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll – aveva compreso il grande potere dell’immaginazione “Non ci posso credere”, disse Alice. “Sul serio?” rispose la Regina in tono di commiserazione. “Provaci ancora: respira a lungo e poi chiudi gli occhi”. Alice scoppiò a ridere. “Non serve a niente”, disse. “Non si possono credere delle cose impossibili”. “Scommetto che non ti sei esercitata abbastanza”, insisté la Regina. “Quando avevo la tua età, lo facevo regolarmente per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte, ancor prima di fare colazione, mi riusciva già di credere a sei cose impossibili”.[55]

Si comprende come la testimonianza di chi ha recuperato un ricordo di cui nemmeno l’origine è certa, possa dare luogo a procedimenti penali per imputazioni anche estremamente gravi.

Non è mai un compito facile discernere il vero dal falso, soprattutto in presenza di circostanze incerte e ambigue, ma troppo spesso uno zelo miope e la pericolosa tendenza a cercare esclusivamente di punire un colpevole, anziché evitare – con altrettanta dedizione – di condannare erroneamente un innocente, spingono verso un approccio incauto e verificatorio, foriero di gravi ingiustizie.[56]

Si consideri che soprattutto nei minori l’attività di suggestione indotta da elementi esterni può rivelarsi particolarmente incisiva ed il modo con cui vengono formulate le domande è determinante ai fini della genuinità delle risposte; domande inducenti modificano la narrazione che il bambino può fare della propria esperienza fino ad arrivare a rendere rappresentazioni del tutto artificiose.[57] I minori sono usualmente in grado di ricordare con precisione se il racconto viene reso in maniera spontanea, a seguito di domande aperte e neutre, in condizioni di contenuta emotività e senza aspettative di terzi finalizzate all’ottenimento di un determinato risultato, ma sono facilmente permeabili alle influenze esterne. Tra i fattori maggiormente rilevanti a riguardo, vi è appunto il modo di porre le domande: domande chiuse, consecutive ed incalzanti, formulate con un certo tono ed in modo da dare per accertati contenuti potenzialmente non veri, possono facilmente indurre il bambino a dare risposte anche false purché in grado di soddisfare l’aspettativa espressa dalla domanda dell’adulto autorevole.[58]

La valutazione di una testimonianza – specialmente se si tratta di quella di un bambino -presenta pertanto molte più incognite che certezze anche nei casi apparentemente più semplici.

A riguardo si potrebbe ritenere che gli operatori professionali del diritto – i giudici in primis, ma anche i pubblici ministeri e gli avvocati – dispongano più di altri di conoscenze di natura psicologica, di risorse e di avvedutezza tali da consentire loro di riconoscere con maggiore facilità gli errori e le distorsioni della memoria degli altri ed anche della propria, o perlomeno di esserne sufficientemente consapevoli da non dimenticare che possano verificarsi. Tuttavia non sembra essere esattamente questa la realtà.

Sarebbe inesatto generalizzare, ma non è errato affermare che le competenze e la consapevolezza in materia psicologica dei giuristi per ampia parte non siano così distanti dalle errate credenze più comuni e diffuse: “Come molte persone di buona istruzione, anche la maggior parte dei giuristi, oltre ad avere un’idea imprecisa della psicologia, nutrono convinzioni erronee. Queste possono essere frutto di un contesto culturale inadeguato e poco specialistico, che predilige le nozioni più suggestive della psicanalisi anche se ormai non sono più condivise dagli studiosi di oggi. I modi di intendere la psicologia che si leggono sui giornali, in talune pubblicazioni e nei media, più in generale, tendono a semplificare le cose se non proprio a banalizzarle. L’immagine divulgata di tale disciplina è troppo spesso appiattita su quella della psicoanalisi. Problemi complessi vengono tradotti in suggestioni emotive che appaiono più convincenti dei discorsi lucidi, cauti ed informati. E queste semplificazioni suggestive esercitano un flusso negativo anche tra gli operatori del diritto”.[59]

La carenza di conoscenza – e soprattutto della consapevolezza di non sapere – può condurre nell’ambito del processo ad esiti estremamente dannosi ed aumenta la probabilità che la decisione finale venga assunta sulla base di concatenazioni solo apparentemente logiche e causali, ma che tali non sono poiché invece fondate su presupposti errati.

L’ignoranza o l’inesatta conoscenza della complessità sottesa alla valutazione psicologica del testimone e delle sue dichiarazioni è un fattore che favorisce la pericolosa propensione da parte di molti operatori del diritto, anche se non esperti, a formulare diagnosi di natura psicologica: spesso si tratta di valutazioni apparentemente sensate, ma che in realtà sono solo frutto di “teorie ingenue”, ovvero di spiegazioni di un certo fenomeno non fondate su controlli scientifici, bensì solamente sull’esperienza personale e soggettiva della persona che formula la teoria.

Al contrario, una teoria scientifica si caratterizza per la metodologia che segue: si pensi ad esempio al metodo scientifico basato sul criterio deduttivo di falsificabilità, anziché su quello induttivo di verificabilità.[60]

Tale differenza di approccio ha un impatto determinante nell’ambito del processo, territorio in cui diritto e psicologia si devono muovere congiuntamente, poiché abbandonare la scientificità per affidarsi a valutazioni pseudo scientifiche ed al “sentire” interiore può portare a conseguenze deleterie.

Nel capitolo successivo verranno esaminati brevemente alcuni casi di studio, in relazione ai quali si cercherà di evidenziare alcuni degli errori commessi nella valutazione delle testimonianze, le quali – in tutti i casi proposti – costituivano la prova principale su cui veniva fondata l’accusa.

 

Casi di studio.

E’ opportuno premettere che le osservazioni di seguito esposte costituiscono il punto di vista dello scrivente, intervenuto quale difensore nei procedimenti giudiziali relativi ai casi di seguito esaminati. Sebbene si tratti di procedimenti pubblici e passati in giudicato, si è scelto di omettere ogni riferimento che idoneo a consentire l’individuazione delle parti interessate; la relativa documentazione processuale è tuttavia disponibile e potrà essere esibita qualora si rendesse necessario.

 

I)Abuso sessuale su minore

Inquadramento:

Nel caso in esame l’avvio del procedimento penale a carico di P.D.M. scaturiva dalle rivelazioni della propria figlia E. che, all’età di 14 anni, riferiva ai Servizi Sociali che il padre aveva abusato di lei con cadenza settimanale per quattro anni – dai sette agli undici anni di età – agendo le violenze mediante penetrazioni vaginali complete.

Le indagini preliminari svolte dal Pubblico Ministero non riuscivano tuttavia ad evidenziare altre e diverse fonti di prova se non il solo racconto della ragazzina, posto che anche la perizia ginecologica alla quale la giovane era stata sottoposta ne aveva accertato l’integrità e l’assenza di tracce di abuso sessuale concludendo che “né questo pregresso accesso in Pronto Soccorso, né i reperti obiettivi attuali, in definitiva, consentono di fare diagnosi clinica di pregresso abuso sessuale”. Si osservi che stando al racconto della minore – considerata la cadenza settimanale delle violenze ed il lasso di tempo in cui avrebbero avuto luogo – si sarebbero verificati almeno 192 episodi di penetrazione completa.

Nessun testimone aveva assistito ai riferiti abusi e nessuno degli adulti che avevano avuto stretti rapporti con la minore in epoca coeva alle violenze – tra i quali l’insegnante di sostegno, la neuropsichiatra infantile, l’assistente sociale – ha mai rilevato alcun segno o sintomo che potesse essere indicativo di tale realtà. Si precisa che la ragazza già dall’età di circa cinque anni era stata presa in carico dal competente Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale di omissis in ragione delle problematiche di carattere cognitivo ed emotivo che erano state rilevate sin da allora e che continuavano a risultare persistenti anche al momento della rivelazione degli abusi. Nonostante ciò, il PM formulava comunque richiesta di rinvio a giudizio, ritenendo attendibile e veritiera la testimonianza della ragazza e fondava tutto l’impianto accusatorio sul racconto della minore.

 

Considerazioni:

il caso di specie è emblematico rispetto alla complessità ed alla delicatezza della valutazione della testimonianza, soprattutto quando questa si riferisca ad un capo di imputazione per violenza sessuale su minore e l’unico testimone sia il minore stesso. Il convincimento sulla veridicità o meno del racconto costituisce di fatto il crocevia che segna la svolta tra il rischio di non perseguire penalmente l’autore di un reato aberrante ed il rischio, altrettanto inaccettabile, di condannare una persona innocente per un reato infamante.

La valutazione della testimonianza del bambino, ancor più che quella dell’adulto, richiede però competenze specifiche ed altamente qualificate; tecniche errate di intervista e di approccio possono ben condurre all’evidenza di abusi e violenze in realtà mai avvenuti, compromettendo definitivamente la possibilità di reperire una testimonianza genuina.

In particolare, nel caso di studio emergono evidenti errori di metodo che hanno influenzato il risultato della consulenza psicodiagnostica effettuata dalla psicologa consulente del PM.

In primo luogo la consulente non ha proceduto ad accertare la capacità della minore a rendere testimonianza: si trattava invece di una indagine assolutamente necessaria, soprattutto in relazione al caso concreto, in cui l’unico testimone dei riferiti abusi risultava essere la stessa vittima, una minore di quattordici anni di età gravata da note e risalenti problematiche di natura psichiatrica.

Sul punto consolidata e costante giurisprudenza della Suprema Corte ha opportunamente osservato che “la valutazione del contenuto della dichiarazione del minore parte offesa in materia di reati sessuali, in considerazione delle complesse indicazioni che la materia stessa comporta, deve contenere un esame dell’attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto; della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo è l’uso dell’indagine psicologica che concerne due aspetti fondamentali: l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità. Il primo consiste nell’accertamento della sua capacità a recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle ed esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari. Il secondo – da tenere distinto dall’attendibilità della prova, che rientra nei compiti esclusivi del giudice – è diretto ad esaminare il modo in cui la giovane vittima ha vissuto e rielaborato la vicenda in maniera da selezionare sincerità, travisamento dei fatti e menzogna […]”.[61]

Dunque la Dott.ssa omissis ha omesso di accertare un requisito fondamentale e propedeutico per procedere alla valutazione del soggetto esaminato, senza il quale ogni successiva attività di indagine psicologica risulta inattendibile.

Inoltre, l’audizione protetta alla quale è stata sottoposta la minore nel corso delle indagini preliminari – condotta sempre dalla medesima psicologa consulente del PM – è stata caratterizzata da una moltitudine di domande suggestive che hanno gravemente alterato la genuinità della deposizione della teste.

Si rammenti preliminarmente che la Carta di Noto[62] – indiscusso punto di riferimento sulla materia – agli artt. 2, 3, 5 e 6 indica che la valutazione del minore nell’ipotesi di abuso sessuale deve essere effettuata unicamente da esperti preparati e opportunamente formati, tenendo presente che la valutazione psicologica non può riguardare l’accertamento dei fatti, il quale è esclusivamente devoluto all’Autorità Giudiziaria.

Agli esperti è invece consentito di esprimere unicamente pareri di natura psicologica – avendo cura di esaminare anche i componenti della famiglia qualora si tratti di abuso intrafamiliare – dando contezza anche delle ipotesi alternative che possono eventualmente prospettarsi ed in ogni caso adottando modalità di colloquio con il minore che garantiscano la serenità del medesimo nonché la genuinità delle risposte, evitando condotte che possano indurre suggestioni.

Si riporta di seguito una breve rassegna di esempi di comunicazione suggestiva avvenuta nel corso dell’audizione di E., condotta dalla psicologa consulente del PM:

-Psicologa: “Bene. Senti E., adesso io ti farò delle domande così poi vengono registrate e filmate sulla videocassetta che andrà proprio al giudice Gianluca”;

-E.: “Quando inizia la registrazione? […] Che cosa dovrei dire io?”

-P.: “E’ cominciato, hanno schiacciato il bottone […]”;

-P.: “Senti, forse facciamo un momento di pausa, vediamo se le cose che abbiamo detto finora vanno bene […] Sei stata proprio brava eh? Brava, brava”;

-P.: “Va bene così, adesso magari lo chiediamo al maresciallo se va bene così […] senti, provo a sentire se va bene così o se dobbiamo capire ancora delle cose in più, va bene?”

E.: “Eh, ma ci hai pensato, io sono stata brava vero?”;

P.: “No guarda, sei stata proprio bravissima a dire tutte queste cose difficili, difficili e faticose”.

Ed ancora, sempre nella medesima audizione protetta, la psicologa intervistatrice si esprimeva nei seguenti termini:

“[…] e poi però io so che in comunità hai raccontato anche che succedevano cose molto faticose […] proviamo a raccontarle?”;

“[…] o forse te lo ha messo in bocca, che è proprio una cosa schifosa, schifosa, schifosa…;

“[…] faceva questa cosa così tanto brutta?”;

“Senti io so che hai raccontato che papà era violento anche con la mamma”;

“[…] non so, che magari ti sono venuti dei mal di pancia oppure dei fastidi alla patatina”;

“Eh, sai i bambini quando hanno queste situazioni così difficili e faticose…”;

“Eh, certo non sarebbe mica bello se stiamo qui a parlare e vediamo li dentro come se fosse un vetro, ti pare? Sarebbe ancora più faticoso”;

”Ti diceva anche di non dirlo? Cos’è che ti diceva?”;

“E tu ti sei accorta che succedeva qualcosa al pisello del papà?”;

“[…] e come succedeva? Lui si muoveva? […] si muoveva sopra di te?”;

“Allora ti faccio la domanda diretta, tu hai visto che dal suo pisello usciva qualcosa?”;

“Come no? …certe volte?”;

”Non so magari il papà ti chiedeva di fare delle cose a lui […] E ti ha mai chiesto magari anche altre cose? Di toccarlo?”.

Nei casi di sospetto abuso sessuale su minori, capita frequentemente che chi conduce il colloquio parta dall’assunto che l’abuso sia avvenuto – come è evidente nell’audizione condotta dalla consulente del pubblico ministero – con la conseguenza che le domande “presuppongano” inevitabilmente che l’ipotesi sia corretta, innescando un circolo vizioso di auto conferma dell’ipotesi stessa, anche nel caso in cui questa sia falsa.

L’intervista viziata da tale aprioristico convincimento porta alla nefasta conseguenza di rinforzare nel bambino l’attitudine ad assecondare l’intervistatore ed a confermare ciò che il medesimo si aspetta che gli venga riferito. Nell’ambito dei colloqui suggestivi si riscontrano infatti frequentemente affermazioni del seguente tenore: “Ecco, proprio questo”, oppure, in modo ancor più invasivo “Brava, è proprio questo che volevo sentirti dire”.[63]

E’ ormai accertato in letteratura, così come nell’esperienza clinica, che i bambini siano più suggestionabili se la domanda viene posta da un adulto piuttosto che da un coetaneo, soprattutto se l’adulto riveste un ruolo autorevole – o che il bambino percepisce come tale – circostanza questa estremamente frequente nel contesto, già di per sé formale, del processo.

Molteplici ricerche hanno confermato la particolare suggestionabilità della memoria dei bambini, provando altresì che la suggestione non si limita a determinare l’aggiunta o la modifica di uno o più elementi di una scena, ma addirittura può indurre il bambino a ricordare eventi che non sono mai accaduti.

Pertanto il rischio cui ci si espone adottando un approccio superficiale nella valutazione di tali elementi, come avvenuto nel caso in esame, è ben evidenziato da autorevole letteratura “…l’euristica della disponibilità, la tendenza al verificazionismo, la perseveranza nella credenza, la sopravvalutazione del significato simbolico…tutti contribuiscono a formare la credenza negli operatori che l’abuso denunciato sia perlomeno altamente probabile. Il risultato di tutti gli errori mostrati finora è cioè che di fronte a qualsiasi fatto empiricamente riscontrabile nel caso denunciato, si tende a giudicare probabile l’abuso stesso” ed ancora “nelle valutazioni di abuso sessuale, il punto è che non esistono indicatori veramente affidabili dell’abuso, indizi che riconducano ad un abuso realmente avvenuto. Ad esempio è stato notato che i bambini abusati spesso presentano uno o più sintomi, che sono espressione di disagio. Tuttavia tali sintomi sono aspecifici, cioè non legati alla situazione di abuso, ma ad un generale malessere del bambino. Ad esempio tali sintomi sono stati osservati in casi di bambini sotto stress per la separazione dei genitori: infatti la risposta reattiva da stress è aspecifica, come insegnano i manuali di psichiatria”.[64]

Si impone dunque una cauta ed attenta valutazione di ogni circostanza, non tralasciando in alcun modo la possibilità che l’abuso non vi sia stato. Si ritiene qui di aderire alla posizione di chi non considera sussistenti indicatori specifici e certi dell’abuso, posto che le medesime manifestazioni di disagio possono avere origine anche in molteplici altre situazioni, quale ad esempio un clima familiare caratterizzato da accesa conflittualità tra i genitori del minore.

Analogamente pare temeraria ed infondata la convinzione che le dichiarazioni siano maggiormente credibili in quanto rese a distanza di tempo ed in periodo non sospetto.

Dunque non possono non sorgere dubbi nell’osservatore attento circa la possibilità che gli incerti elementi di valutazione si possano molto facilmente prestare ad una interpretazione come al suo esatto contrario.

Nel caso di studio si osservi sulla base di quali elementi il giudice ha ritenuto attendibile il racconto di E. : “[…] in particolare pare opportuno evidenziare in primo luogo la piena e completa rispondenza tra le dichiarazioni rese dalla minore in sede di audizione protetta e quelle che la stessa ebbe a riferire alle operatrici della comunità, le quali hanno direttamente raccolto le confidenze della minore e le hanno riferite all’autorità giudiziaria in termini pressoché identici rispetto a quello che E. ha raccontato in sede di audizione protetta […] Le sommarie informazioni rese hanno particolare valenza proprio in quanto la piena corrispondenza fra le varie versioni che E. ha fornito a differenti soggetti in tempi diversi induce a far ritenere assolutamente veritieri i fatti da essa raccontati. […] il positivo vaglio di credibilità del racconto della persona offesa trova, inoltre, conforto nelle condotte descritte dai soggetti che hanno proceduto all’audizione della stessa, condotte caratterizzate ad esempio da tremori, segni di disagio ed altro che se da un lato sono indicativi dello sconvolgimento psicologico cagionato dalle violenze, dall’altro sono indicativi di una assenza di invenzione nel racconto di E.: è in sostanza impensabile che la ragazzina sia stata capace non solo di inventarsi il tutto, ma anche di simulare durante il racconto segni di evidente malessere se non addirittura di forte disgusto per quanto affermato di esserle accaduto.”

La valutazione del giudice sulla veridicità del racconto si fonda su considerazioni di senso comune e massime di esperienza, apparentemente sensate, ma prive di fondamento scientifico.

Peraltro il giudice ha ignorato i molteplici elementi emersi nel corso delle indagini e che indicavano chiaramente come al contrario il racconto di E. non fosse in alcun modo veritiero; tra questi – senza dimenticare che la perizia ginecologica ha trovato la ragazzina intatta a dispetto delle centinaia di penetrazioni complete che avrebbe subito – è significativo il clima di pressione e disagio subito dalla minore all’interno della comunità ove ha avuto origine la rivelazione degli abusi, così descritto dalla psicologa del Servizio Tutela Minori del Comune di omissis: “Il rapporto con gli educatori non appare significativo e sembra entrare in conflitto con i suoi bisogni e le sue richieste. Nello specifico, viene evidenziata la difficoltà a tollerare la richiesta di informazioni rispetto allo stato d’animo ed alla storia personale: “loro continuano a chiedermi come sto e se mio papà mi ha fatto violenza, ma non è vero…lui era solo violento con la mamma e con le cose”.

Ciò che emerge da tale relazione è una insistente e pressante ricerca di risposte affermative rivolte alla minore e tese a dare conferma di quello che appare essere l’assunto pacifico ed indubitabile abbracciato dagli operatori della comunità: E. è stata abusata dal padre, deve solo essere aiutata e spinta a parlare. Nessun dubbio o spunto critico ha intaccato un percorso palesemente verificatorio che ha come punto di arrivo il medesimo presupposto che lo ha generato, in una circolarità tautologica che si autoalimenta.

Appurato che esistono divergenze e opinioni contrastanti tra ricercatori e clinici sia sul processo di rivelazione fatto dai bambini che sull’attendibilità delle loro dichiarazioni, l’assoluta certezza mostrata dal giudice nel caso in esame appare pericolosa ed azzardata e palesa l’adesione del medesimo alla diffusa e falsa credenza che i bambini non mentano mai e che i bambini non abusati non abbiano l’esperienza sessuale per creare racconti di questo tipo, oltre al fatto di considerare quale indicatore certo di violenza sintomi che in realtà sono pacificamente aspecifici.

Invero l’esperienza scientifica dimostra che i bambini dicono bugie, lavorano su falsi convincimenti, si lasciano condurre da giochi di fantasie e di finzione. Studi e ricerche hanno confermato che i minori possono innocentemente rendere false dichiarazioni se sollecitati con domande dirette, suggestive o forzanti, soprattutto se sottoposti a ripetute interviste.

Anche la Cassazione giunge alle stesse conclusioni puntualizzando che la gradualità nella rivelazione degli abusi – dai meno gravi a quelli più gravi – non costituisce di per sé una prova certa della veridicità di quanto narrato dalla vittima, posto che si tratta di una valutazione priva di qualsivoglia fondamento scientifico che deve essere necessariamente correlata con altri elementi di riscontro, non potendo di per sé assumere rilievo qualora vi siano elementi di sospetto.[65]

La delicatezza ed i rischi dell’indagine psicologica avente ad oggetto un minore è ben espressa anche da altra sentenza, tra le molteplici, sempre della Suprema Corte “Si verifica un meccanismo per il quale il bambino asseconda l’intervistatore e racconta quello che lo stesso si attende, o teme, di sentire; l’adulto in modo inconsapevole fa comprendere l’oggetto della sua aspettativa con la domanda suggestiva che formula al bambino. In sintesi, crede di chiedere per sapere, mentre in realtà trasmette al bambino una informazione su ciò che ritiene che sia successo. Se reiteratamente sollecitato con inappropriati metodi di intervista che implicano la risposta o che trasmettano notizie, il minore può a poco a poco introiettare quelle informazioni ricevute, che hanno condizionato le sue risposte, fino a radicare un falso ricordo autobiografico; gli studiosi della memoria insegnano che gli adulti raccontano ricordando mentre i bambini ricordano raccontando, strutturando cioè il ricordo sulla base della narrazione fatta. Una volta fornita una versione, anche indotta, questa si consolida nel tempo e viene percepita come corrispondente alla realtà […] Tale via non è stata percorsa dai giudici di merito che sbrigativamente hanno escluso interferenze di adulti o elementi comunque inquinanti la narrazione della giovane”.[66]

Non si dimentichi peraltro come gli esperti concordino sul fatto che non esistano indici patognomici di abuso sessuale, poiché le medesime manifestazioni di disagio possono riscontrarsi anche in minori che hanno subito stress di natura non sessuale; non è dunque possibile concludere per la compatibilità con l’abuso sessuale sulla sola scorta della presenza di sintomi che in realtà possono essere stati generati da una molteplicità di situazioni.  Le Linee guida Sinopia indicano inoltre che i test psicologici proiettivi non sono strumenti efficaci per la valutazione di abuso sessuale, poiché la psicologia sperimentale ha provato che non sussistono differenze di risultato significative quando vengono applicati a minori abusati e non abusati.[67]

La psicologa consulente del PM, nella propria relazione sulla minore – a dispetto degli errori metodologici e di merito in cui è incorsa – ha concluso “per un quadro di compatibilità tra quanto E. ha raccontato in comunità, alla scrivente ed in audizione protetta, attraverso dichiarazioni che sono da ritenersi attendibili, e l’ipotesi che sia stata vittima di un trauma di natura sessuale”.[68] Sulla base di tale relazione il PM ha dunque dato avvio al procedimento penale contro il padre di E.

 

II) Tentativo di furto di autoveicolo:

Inquadramento:

Il secondo caso in esame propone contenuti certamente meno drammatici del precedente, ma mostra profili altrettanto interessanti al fine del tema della testimonianza in giudizio. Si tratta del tentativo di furto, ad opera di due soggetti, di un furgone parcheggiato all’interno del cortile di un condominio. I due venivano sorpresi dal figlio del proprietario mentre erano intenti a cercare di avviare il furgone e una volta scoperti fuggivano senza agire alcuna reazione violenta. I testi del PM sentiti sui fatti, prima nel corso delle indagini preliminari e poi in dibattimento, erano due: il sig. C.M., il figlio del proprietario, ed il sig. T.V. una guardia giurata fuori servizio che abita nello stesso condominio e che avrebbe notato i due individui mentre erano appostati in auto all’esterno della palazzina.

 

Considerazioni:

I due testi del PM – che avrebbero visto gli autori del tentato furto in azione – sentiti prima a sommarie informazioni testimoniali (S.I.T.) dai Carabinieri e poi escussi in Tribunale in sede di esame dibattimentale con cross examination, incorrono invece in una serie macroscopica di errori, contraddizioni e presunzioni tanto che non è facile comprendere ciò che abbiano realmente visto, ciò che abbiano inferito e ciò che possa essere un falso ricordo o comunque il frutto di una delle trappole della memoria di cui si è detto. La certezza e la ricchezza di particolari di quello che era stato il racconto reso davanti ai Carabinieri, come si vedrà, viene rimpiazzata da confusione e vaghezza alla prova dell’esame incrociato.

Il teste C.M. in sede di sommarie informazioni testimoniali – S.I.T. – aveva riferito particolari molto precisi rispetto ai fatti ai quali aveva assistito:

S.I.T. del sig. C.M. del omissis “[…] ho notato due persone di sesso maschile di cui una era all’interno del furgone di mio padre, mentre l’altro che probabilmente faceva da “palo” era appoggiato al veicolo […] alla mia richiesta di cosa stessero facendo, il “palo” mi ha detto che stavano prendendo delle cose nel furgone del suo amico, ma gli ho detto che il furgone era di mio padre […] la stessa persona mi ha detto ”stai tranquillo” ed hanno iniziato a correre, ma dopo aver scavalcato la recinzione sono saliti a bordo di una Lancia Y vecchio modello […] Posso descrivere i due soggetti: il primo, colui che rovistava nel furgone era alto circa 160 cm, corporatura leggermente robusta, ma atletica, capelli scuri corti, barba nera, carnagione mediterranea, vestito con tuta da meccanico blu, età apparente 20/25 anni. Il secondo soggetto, colui che faceva da “palo” era alto circa 175 cm, carnagione rosea, totalmente rasato, corporatura molto esile e atletica, senza barba né pizzetto, età apparente di circa 20/25 anni, indossava un paio di jeans blu ed una felpa a strisce, parlava regolarmente l’italiano, ma l’accento sembrava di un cittadino del sud Italia, ma non saprei indicare la regione di provenienza”. Domanda: nel caso le venissero esibite delle foto, riuscirebbe a riconoscere gli autori? “Si, sarei in grado di riconoscerli”;

Verbale di individuazione di persona a mezzo foto segnaletica da parte del sig. C.M. del omissis “[…] Al teste viene mostrato l’album fotografico contenente nr.18 fotografie raffiguranti soggetti simili alla descrizione fornita dal teste. Il sig. C.M., nel visionare attentamente l’album citato, riferisce “non riconosco nessuno”].

Si noti come in sede di S.I.T. il teste esponga una rappresentazione precisa e sicura dei fatti a cui ha assistito e fornisca una descrizione molto particolareggiata dei due malintenzionati, non riconoscendo però alcuno di essi tra le immagini degli individui di cui alle foto segnaletiche che gli vengono mostrate, tra i quali vi sono ovviamente i due imputati.

Tuttavia successivamente, in sede di escussione in dibattimento, il sig. C.M. – testimone del Pubblico Ministero – sottoposto al controesame in cross examination da parte dei difensori dei due imputati, fornisce un racconto molto diverso, caratterizzato da lacune, vuoti di memoria, inferenze e contraddizioni, come si evince dal seguente stralcio delle trascrizioni del verbale di udienza:

AVV. P.: – Buongiorno signor C. Senta, lei ha poc’anzi riferito che il primo contatto visivo con questi due soggetti è avvenuto da trenta, quaranta metri?

TESTE C.M. – Sì.

AVV. P. – Ma poi lei si è avvicinato a questi signori?

TESTE C.M. – Gli ho urlato dietro e loro sono scappati via, sono scappati via subito, io ho cercato di corrergli dietro, ma loro erano già vicini al cancelletto, hanno aperto e sono scappati via.

AVV. P. – Quindi nessuno di questi due soggetti le ha parlato? Non c’è stata nessuna conversazione?

TESTE C.M. – No no, non c’è niente, nessuna conversazione.

AVV. P. – Giudice, qui avrei una contestazione. GIUDICE – Prego.

AVV. P. – Rispetto alle sommarie informazioni rese appunto dal signor C.M. l’11 marzo. Il signor C., se mi consente brevemente, dice questo, di aver visto appunto questi signori e di essersi avvicinato dicendo “Cosa state facendo?” e uno dei due gli dice: “Sto prendendo delle cose nel furgone del mio amico” e il signor C. dice: “No, questo è il furgone di mio padre” e l’altro gli dice: “Stai tranquillo”, questo è quello che lei signor C. ha dichiarato.

GIUDICE – Se lo ricorda questo?

TESTE C.M. – Sì.  GIUDICE – A contestazione conferma.

AVV. P. – Allora le chiedo: dal primo contatto visivo c’è stato un avvicinamento per poter arrivare ad una conversazione di questo tenore?

TESTE C.M. – Loro sono scappati via subito, è stata diciamo troppo veloce la storia.

AVV. P. – Non riesco a capire come sia possibile da trenta o ancor più quaranta metri…

GIUDICE – Hanno gridato? Hanno parlato ad alta voce?

TESTE C.M. – Hanno gridato loro, hanno cercato di… non riesco a spiegarmi.

GIUDICE – Se la ricorda questa risposta lei?

TESTE C.M. – Sì, adesso che ci penso sì. Sì sì, adesso che ci penso sì, mi ricordo.

GIUDICE – Comunque lei non li ha visti abbastanza da vicino da poterli riconoscere mi sembra di capire? TESTE CORDA M. – Non li ho visti in faccia, stavano… è successo troppo in fretta, scappavano loro.

AVV. P. – Però signor Giudice devo fare un’altra contestazione, perché sempre nelle medesime SIT il signor C. dice, rispondendo a domanda: “Sì, sarei in grado di riconoscerli”, quindi sembrerebbe che la vicinanza fosse…

GIUDICE – Il fatto è del 2014, lei non è poi stato chiamato dai Carabinieri per un’individuazione di persona?

TESTE C.M. – No no, a me mi avevano fatto vedere le foto lì, ma non ce ne erano di foto, io come gli ho detto al Maresciallo non saprei riconoscerli, cioè di spalle così.

GIUDICE – Lei ha visto comunque un album, ha preso visione di un album fotografico?

TESTE C.M. – Sì, me l’aveva fatto vedere.

GIUDICE – E non ha riconosciuto nessuno di coloro che erano effigiati in quell’album?

TESTE C.M. – No.

GIUDICE – Posso supporre che fossero compresi anche loro?

AVV. P. – Nell’album sì Giudice, certamente. Infatti la domanda era se al signore fosse stato mostrato un album fotografico e se il signore non avesse riconosciuto nessuno, però la contestazione era riferita al fatto che lui aveva affermato di poterli riconoscere e di averli visti bene in faccia.

AVV. P. – E questi due individui nella fuga sono usciti in che modo? Hanno aperto il cancello?

TESTE C.M. – Hanno aperto il cancelletto perché c’è il pulsante di fianco al cancelletto, hanno aperto e sono scappati via.

AVV. P. – Hanno aperto il cancelletto. Io qui ho un’altra contestazione Giudice, perché sempre il signor C. dichiarava: “Hanno iniziato a correre e dopo aver scavalcato la recinzione sono fuggiti all’esterno, sulla strada”.

TESTE C.M. – No, hanno aperto.

AVV. P. – Quindi hanno aperto, non sono…

TESTE C. M. – Hanno aperto il cancello, non hanno scavalcato, hanno aperto.

AVV. P. – Senta, fisicamente erano alti, bassi, robusti, più mingherlini?

TESTE C.M. – Uno era abbastanza alto e uno era piccoletto, piccoletto e pelato, e uno era abbastanza alto.

AVV. P. – Riesce a ricordare più o meno se erano giovani, di mezza età o che altro?

TESTE C.M. – Uno era abbastanza giovane, sembrava un ragazzo abbastanza giovane, l’altro no. Un ragazzo era abbastanza alto, quello che era appoggiato al furgone era un ragazzo abbastanza alto, quello me lo ricordo.

Interviene il secondo difensore.

AVV. B. – Quanto alto pressappoco?

TESTE C.M. – Almeno 1,75 sarà stato.

AVV. B. – L’altro invece, pressappoco?

TESTE C.M. – L’altro era piccoletto, sarà stato 1,60. Sì, non era tanto alto.

AVV. B. – Lei prima ha detto di averli visti da lontano, da circa trenta metri, è corretto?

TESTE C.M. – Sì.

AVV. B. – Lei ai Carabinieri però ha indicato anche addirittura la carnagione di questi soggetti, quindi deduco da questa descrizione che lei abbia avuto un contatto ravvicinato con queste persone.

TESTE C.M. – Li ho visti da lontano.

AVV. B. – Potrebbe essersi sbagliato su questo punto?

TESTE C.M. – Sì, questo sì, li ho visti da lontano io.

GIUDICE – Però è strano, perché nel momento in cui lei è stato sentito a S.I.T. era nell’immediatezza del fatto.

TESTE C.M. – Adesso è passato un po’ di tempo, non è che mi…

GIUDICE – Allora mi spieghi, ha visto o non ha visto questa persona, la carnagione?

TESTE C.M. – Non li ho visti, non li ho visti.

GIUDICE – Ha paura stamattina a dirlo o ci sono dei problemi?

TESTE C.M. – No no, ci mancherebbe, però non me la sento di dire una cosa per un’altra, cioè io non li ho visti i ragazzi lì. Cioè loro mi hanno… i Carabinieri mi hanno chiesto…

GIUDICE – Ma se me li dovesse descrivere, ha detto uno era alto e giovane, corporatura snella…

TESTE C.M. – Ma di spalle lo vedo se uno è alto.

GIUDICE – Di spalle, ma quello che le ha parlato avrà dovuto necessariamente voltarsi verso di lei per parlarle.

TESTE C.M. – Ma è successo che stavano scappando, è successo tutto…

GIUDICE – Le ha parlato quello alto o quello piccolo?

TESTE C.M. – Quello alto.

GIUDICE – Di che colore aveva i capelli? Non lo ricorda?

TESTE C.M. – Non mi ricordo.

GIUDICE – Barba? Baffi? Nulla?

TESTE C.M. – No.

GIUDICE – E quello piccoletto non le ha parlato?

TESTE C.M. – No, non mi ha parlato quello.

AVV. B. – Quello alto sta dicendo l’ha visto di spalle?

TESTE C.M. – Quello alto era così davanti a me però si è girato subito ed è scappato via, mi ha detto: “Stai tranquillo che non è successo niente”, ha preso e se n’è andato.

AVV. B. – Quindi lei non ha visto i tratti somatici di questa persona?

TESTE C.M. – No, non li ho visti.

AVV. B. – Io però le devo fare una contestazione signor C.M., nel senso che le devo ricordare che davanti ai Carabinieri della stazione di omissis in data 11.03.xx lei dichiarò: “Il secondo soggetto, colui che faceva da palo, era alto circa 1,75, carnagione rosea, totalmente rasato, corporatura molto esile ed atletica senza né barba né pizzetto, età apparente di circa 20/25 anni, indossava un paio di jeans blu e una felpa a strisce, parlava regolarmente l’italiano, ma l’accento sembrava di un cittadino del sud Italia, non saprei indicare la regione di provenienza”, quindi lei ha fornito una descrizione particolarmente dettagliata.

GIUDICE – Adesso che il difensore le ha letto le dichiarazioni che lei aveva reso, quindi ha rinfrescato la sua memoria, conferma questa dichiarazione?

TESTE C.M. – Non mi ricordo.

AVV. B. – Scusi, posso terminare solo la mia domanda, come ha fatto ad essere così preciso se l’ha visto solo di spalle?

TESTE C.M. – Avvocato io non mi ricordo, cioè…

GIUDICE – Però queste dichiarazioni lei le ha rese e le ha sottoscritte, quindi immagino che in quel momento… o ha mentito là, mi spieghi, cioè era stata una descrizione abbastanza precisa per quanto senz’altro dovuta alla…?

TESTE C.M. – Se ho dichiarato quello vuol dire che era così.

GIUDICE – Sarà così?

TESTE C.M. – Sarà così, ero più fresco di memoria.

GIUDICE – E la descrizione che ha appena letto l’avvocato è quella della persona che le ha parlato?

TESTE C.M. – Sì.

AVV. B. – L’altro l’ha visto anch’esso di sfuggita?

TESTE C.M. – Di sfuggita, stavano fuggendo tutti e due.

AVV. B. – Finisco la contestazione. “Il primo, colui che rovistava nel furgone, era alto circa 160 centimetri, corporatura leggermente robusta ma atletica, capelli scuri corti, barba nera, carnagione mediterranea, vestito con tuta da meccanico blu ed età apparente di circa 20/25 anni e questo soggetto non ha proferito nessuna parola”. Comunque la descrizione che lei ha fornito anche di questo signore è stata particolarmente precisa, però oggi lei ci dice che l’ha visto di sfuggita, potrebbe chiarirmi questa discrasia?

TESTE C.M. – Io li ho visti tutti e due di sfuggita, cioè quei particolari lì glieli ho… cioè li ho visti, se glieli ho forniti ai Carabinieri è perché li ho visti.

AVV. B – Quindi li ha visti?

TESTE C.M. – Però loro erano… cioè è successo troppo in fretta diciamo”.

Sebbene l’interrogato fosse chiamato a rispondere su un fatto piuttosto semplice ed avvenuto in pieno giorno, si noti come tra le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali e quelle rese circa due anni dopo nel corso dell’escussione dibattimentale sussistano innumerevoli contraddizioni; emerge soprattutto confusione sul ricordo di quasi tutti i particolari che il soggetto aveva in prima battuta riferito con estrema certezza, ma anche il ricorso ad inferenze e presunzioni nel tentativo di colmare i vuoti e correggere la propria narrazione.

Il sig. C.M. aveva realmente visto tali particolari? O forse ha subito la suggestione di Carabinieri troppo zelanti nel sollecitarlo a ricordare? Le dichiarazioni veritiere erano quelle rese nell’imminenza dei fatti e raccolte dai soli Carabinieri, oppure quelle rese in udienza a seguito delle domande di PM, difesa e Giudice? O entrambe le versioni devono ritenersi inattendibili?

Si precisa che questo teste – come il secondo successivamente escusso – non erano in alcun modo intimoriti dai due imputati, i quali non sono mai stati presenti alle udienze e vantavano dei precedenti penali del tutto modesti per piccoli furti. E’ dunque da escludersi che il teste abbia inteso mentire consapevolmente per paura di eventuali ritorsioni da parte degli imputati.

Analogamente, anche le narrazioni rese a S.I.T. e poi in dibattimento dal teste T.V., mostrano evidenti profili di problematicità rispetto alla loro genesi ed alla loro attendibilità.

Si considerino dapprima le sommarie informazioni testimoniali rese da T.V.:

S.I.T. del sig. T.V. del omissis“[…] ho notato un’autovettura Lancia Y con all’interno due persone di sesso maschile, magri e di piccola statura. L’uomo alla guida poteva avere sui 52/54 anni con barba lunga e cappellino, mentre il passeggero sui 20/22 anni. Mi mettevo davanti al passo carraio e facendo finta di andare presso i citofoni memorizzavo il numero di targa, quindi fatto ciò mi recavo al lavoro perché ero già in ritardo”;

S.I.T. del sig. T.V. del omissisMi trovavo nei pressi della mia autovettura parcheggiata all’esterno del condominio, quando ho notato un’altra autovettura Lancia Y con all’interno due persone di sesso maschile, di corporatura magra e di piccola statura. L’uomo seduto alla guida poteva avere 52/54 anni con barba lunga e cappellino ed i capelli scuri, mentre il soggetto seduto lato passeggero aveva circa 20/22 anni corporatura esile, capelli scuri e molto corti […] La sera quando sono tornato a casa alle 21.15 ho sentito i vicini di casa sig.ri P. e F. che erano nei garage sottostanti, gli chiedevo cosa fosse accaduto e mi riferivano che verso le ore 16.30 circa due persone si erano introdotte all’interno del cortile condominiale ed avevano tentato di forzare un furgone in sosta.Domanda: se vedesse le foto dei due soggetti a bordo della Lancia Y, sarebbe in grado di identificarli? “Si, sarei in grado di identificarli”.

Verbale di individuazione di persona a mezzo foto segnaletica da parte del sig. T.V. del omissis“[…] Un soggetto alto circa 1,70, corporatura leggermente esile, capelli scuri e corti, barba nera, carnagione mediterranea, vestito con tuta da lavoro, età apparente circa 52/54 anni. Il secondo soggetto alto 1,80, carnagione mediterranea, capelli molto corti, corporatura esile, senza barba né pizzetto né baffi, età apparente circa 20/22 anni, indossava una felpa e una giacca a vento piuttosto aderenti […] Al testimone viene mostrato l’album fotografico contenente nr. 18 fotografie raffiguranti soggetti simili alla descrizione fornita dal teste. Il sig. T.V., nel visionare attentamente l’album citato, riferisce: “Riconosco al 100% con assoluta certezza, i soggetti raffigurati nelle foto 10 e 16”.

Come accaduto per il teste C.M., anche il sig. T.V. in sede di escussione dibattimentale rende una narrazione incerta e per molti aspetti ampiamente distante da quanto riferito a S.I.T.:

AVV. P. – Buongiorno signor T. Senta, lei è stato attirato, la sua attenzione è stata attirata da questa autovettura che ha visto a suo dire aggirarsi con fare sospetto o essere ferma davanti al condominio, si ricorda qual era l’ora in cui questo fatto è avvenuto?

TESTE T.V. – Circa le 15:00.

AVV. P. – Ho una contestazione, Giudice, al riguardo in quanto il signor T. è stato sentito, inizialmente ha reso spontanee dichiarazioni il 24 gennaio xx e riferiva che questo episodio sarebbe avvenuto alle ore 16:30 circa, successivamente è stato sentito a SIT il 5 marzo xxx, confermava che l’episodio era avvenuto alle 16:30, un ulteriore volta il 12 marzo è stato convocato per l’individuazione fotografica e anche in quell’occasione, riferiva che i fatti erano del 20 gennaio xx alle ore 16:30.

GIUDICE – Quindi conferma questa data? TESTE T.V. – Sì sì.

GIUDICE – Lei li ha visti…

AVV. P. – No, l’ora Giudice. GIUDICE – Scusi, e l’orario?

TESTE T.V. – Sì sì, assolutamente.

GIUDICE – L’ora che lei ha indicato è il momento iniziale? TESTE T.V. – Sì.

GIUDICE – Cioè dal momento in cui lei ha cominciato a vederli?

AVV. P. – Può descrivere fisicamente queste due persone che ha visto sull’automobile?

TESTE T.V. – Io ho visto due persone magre, abbastanza emaciate anche, uno più vecchio, uno più giovane, i capelli corti, molto corti.

AVV. P. – Alti, bassi?

TESTE T.V. – No, erano seduti in macchina.

AVV. P. – Allora Giudice io devo contestare perché nelle…

TESTE T.– Statura media immagino, perché comunque vedevo il busto.

AVV. P. – Lei dice “io non li ho visti perché erano seduti, non potevo dire…”

TESTE T.V. – Sì.

AVV. P. – S.I.T. del 24 gennaio, il signor T.V. dice: “Due persone di sesso maschile magri e di piccola statura”; sommarie informazioni del 5 marzo il signor T.V. dice: “Con all’interno – ripete – due persone di sesso maschile, di corporatura magra e di piccola statura”. Poi in occasione del riconoscimento fotografico compare invece un elemento discrepante perché dice: “Un soggetto alto circa 1,70, corporatura leggermente esile, capelli scuri e corti, barba nera, carnagione mediterranea, vestito con tuta da lavoro, età apparente circa 52/54 anni. Il secondo soggetto alto 1,80, carnagione mediterranea, capelli molto corti, corporatura esile, senza barba né pizzetto né baffi, età apparente circa 20/22 anni, indossava una felpa e una giacca a vento piuttosto aderenti”. Quindi mi può spiegare la ragione di questa discrepanza tra due dichiarazioni in cui la statura dei due viene riferita come di piccola statura e poi…

GIUDICE – Perché lei nell’immediatezza del fatto li aveva visti piccoli, seduti e piccoli.

TESTE T.V. – No, cioè probabilmente sì, comunque in macchina avevo visto due persone magre, poi probabilmente i Carabinieri mi hanno fatto domande “Ma secondo lei?”, allora ho cercato di rispondere…

GIUDICE – Non li ha mai visti fuori dall’auto?

TESTE T.V. – No no, assolutamente.

GIUDICE – Quindi lei non può dirlo?

TESTE T.V. – Mi hanno chiesto di presumere forse l’altezza, io per quello ho detto “Presumo che siano così”.

GIUDICE – Però in realtà lei aveva detto piccoli?

TESTE T.V. – No, io sì li ho visti in macchina, li ho visti magri.

AVV. P. – Due volte riferisce di piccola statura, poi qualcuno le ha fatto dire qualcosa di diverso…

GIUDICE – Soprattutto mi sembra di capire che non li ha mai visti fuori dalla macchina?

TESTE T.V. – No no.

GIUDICE – Quindi non può neanche dire se fossero…

TESTE T,V. – No no, posso solo presumere.

GIUDICE – Non ha percepito neanche una differenza di altezza da seduti?

TESTE T.V. – No.

AVV. P. – Per cui io non so chi le abbia fatto presumere l’altezza, ma insomma lei li ha visti seduti…in piedi mai?

TESTE T.V. – No.

AVV. P. – Riguardo a questa descrizione dell’abbigliamento…lei è riuscito quindi a vedere la parte superiore dei vestiti?

TESTE T.V. – Certo.

AVV. P. – Dice la tuta da lavoro, anche i pantaloni che avevano i due imputati sostanzialmente?

TESTE T.V. – No, erano seduti, io ero fuori dalla macchina.

AVV. P. – Però io le ripeto che lei dice: “Uno era vestito con tuta da lavoro”.

TESTE T.V. – Adesso io non mi ricordo… cioè probabilmente era una tuta da lavoro, è chiaro che se parte la tuta da lavoro non può finire con un pantalone, ma è una tuta, probabilmente se ho visto quella era una tuta da lavoro”.

Anche il teste T.V. – il quale aveva riferito narrazioni incongruenti già nella descrizione degli autori del reato rese a S.I.T. rispetto a quanto poi dichiarato in sede di riconoscimento fotografico, nonostante ciò affermando di essere sicuro “al 100%” circa il riconoscimento – incorra in ulteriori contraddizioni anche in sede di dibattimento.

Inoltre il teste nel corso dell’interrogatorio in contro esame dei difensori riferiva chiaramente in più occasioni di non aver visto, ma di “presumere” ed addirittura rivelando di essere stato sostanzialmente indotto dagli operanti a fare delle inferenze pur di dare una risposta.

Appare evidente anche all’osservatore meno attento come quest’ultima testimonianza, al pari di quella di C.M., sia gravata da criticità che rendono difficile ritenerla realmente attendibile ed idonea a fornire elementi certi di conoscenza. Si badi inoltre che i due testi sono stati doppiamente incongruenti: rispetto alla propria narrazione resa in occasioni diverse ed anche rispetto alla narrazione dell’altro, quasi avessero visto due coppie diverse di persone.

Nonostante ciò, il giudice ha valutato entrambe le testimonianze pienamente attendibili “[…] Quanto alla individuazione degli imputati quali autori del reato, il teste C.M. ha dichiarato di non averli visti in volto, ma di poterli descrivere nel seguente modo: l’uno più giovane, alto 1.75 almeno, di corporatura snella, l’altro più piccolo dell’ altezza di circa 1,60; all’epoca dei fatti aggiunse particolari che non è stato in grado di ricordare all’udienza […] Dirimenti, tuttavia, per ascrivere la responsabilità del reato ai prevenuti debbono ritenersi le dichiarazioni rese dal teste T.V., residente nel medesimo stabile. T.V. infatti in sede di individuazione fotografica riconobbe senza alcun dubbio negli imputati i soggetti visti in attesa quel giorno sull’autovettura Lancia Y; uno dei due soggetti indossava una tuta da lavoro. I difensori hanno contestato la discrepanza tra le descrizioni, rese in maniera precisa dai testi in sede di individuazione fotografica, sottolineando la possibilità di una eventuale suggestione fornita dai Carabinieri. L’obiezione deve ritenersi superata anche alla luce dalla precisa descrizione del teste T.V. […] assolutamente credibile”.

La narrazione di entrambi i testimoni di cui sopra presenta chiari elementi di incertezza rispetto alla loro attendibilità, ma a dispetto di ciò il giudice ha ritenuto credibile il contenuto di tali testimonianze, ponendolo quale elemento cardine per pronunciare sentenza di condanna a carico dei due imputati.

Si immagini se, anziché il banale tentativo di furto di un furgone di scarso valore, il procedimento avesse avuto ad oggetto un caso di omicidio o un altro grave reato, a fronte del quale il tema del riconoscimento del colpevole avrebbe costituito il cardine della decisione. Le incertezze, le contraddizioni, le inferenze di questi due testimoni sarebbero risultate drammaticamente rilevanti.

[1] D. L. Schacter, I sette peccati della memoria. Come la mente dimentica e ricorda, Milano, Mondadori, 2002.
[2] H. Ebbinghaus, op. cit.
[3] J.T. Wixted, E.B. Ebbesen, On the form of forgetting, in Psychological science, 1991, 2.
[4] W. F. Brewer, What is recollective memory?, in D. C. Rubin (ed.), Remembering Our Past: Studies in Autobiographical Memory, Cambridge, Cambridge University Press, 1996
[5] L. Postman, B.J. Underwood, Critical issues in interference theory, in Memory & Cognition, 1973, 1.
[6] D. Kahneman, op. cit.
[7] D. L. Schacter, op. cit.
[8] G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, Il mulino, 2003.
[9] E. F. Loftus, G. R. Loftus, J. Messo, Some facts about “weapon focus”, in Law and Human Behavior, 1987, 6.
[10] D. L. Schacter, op. cit.
[11] D. Burke, D. Mackay, S.J. Worthley, E. Wade, On the tip of the tongue: What causes word finding failures in young and old adults?, in Journal of Memory and Language, 1991, 30.
[12] D. L. Schacter, op. cit.
[13] E. Altavilla, Il riconoscimento e la ricognizione delle persone e delle cose, in Psicologia giudiziaria, Utet, Torino 1955.
[14] A. Labate, A. Cerasa, L. Mumoli, E. Ferlazzo, U. Aguglia, A. Quattrone, A. Gambardella, Neuro-anatomical differences among epileptic and non-epileptic deja-vu. Cortex, 2015, 14, 1-7.
[15] D. L. Schackter, op. cit.
[16] Ibidem.
[17] E. F. Loftus, G. Zanni,  Eyewitness testimony: The influence of the wording of a question, in Bulletin of the Psychonomic Society, 1975, 5.
[18] I. E. Hyman, F. J. Billings Jr., Individual Differences and the Creation of False Childhood Memories, in Memory, 1998, 6.
[19] L. M. Goff, H. L. Roediger, Imagination inflation for action events: Repeated imaginings lead to illusory recollections, in Memory & Cognition, 1998, 26.
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[27] E. A. Kensinger, D. L. Schacter, Amygdala Activity Is Associated with the Successful Encoding of Item, But Not Source, Information for Positive and Negative Stimuli, in Journal of Neuroscience, 2006.
[28]  Vi sono due casi, peraltro non molto frequenti, in cui vi può essere l’assunzione di una prova testimoniale al di fuori dell’istruttoria dibattimentale tipica del rito ordinario: una prima ipotesi è quella dell’incidente probatorio, ove per specifiche ragioni l’assunzione della prova – sempre in contradditorio – viene anticipata alla fase delle indagini preliminari; la seconda ipotesi si verifica quando il giudice concede all’imputato di procedere con rito abbreviato condizionato all’assunzione della prova testimoniale richiesta. In tal caso il processo viene deciso sulla base delle fonti di prova cosi come raccolte all’esito delle indagini preliminari, oltre alla prova testimoniale assunta in contraddittorio. Si tratta però di una possibilità alquanto infrequente, poiché generalmente contraria alle esigenze di celerità e speditezza che caratterizzano il rito abbreviato, posto che il luogo naturalmente deputato alla raccolta della prova testimoniale è il dibattimento (n.d.a.).
[29] A. Pennycook, Actions Speak Louder Than Words: Paralanguage, Communication, and Education, in Tesol Quarterly, 1985.
[30] S. M. Kassin, K. Kiechel, The Social Psychology of False Confessions: Compliance, Internalization, and Confabulation, in Psychological Science, 1996, 7, 3.
[31] G. Gulotta, L’ investigazione e la cross-examination : competenze e sfide per il processo penale moderno, Milano, Giuffrè, 2003.
[32] G. Gulotta et al., Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, Giuffrè, 2002.
[33]The fallibility of memory has become an issue of considerable practical and theoretical importance. Here we studied the impact of experimentally induced stress on the ability of human participants to accurately recognise words presented on a list. We found that stress selectively disrupted participants’ ability to distinguish words that were presented for study from critical lure words that were semantically related, but not presented for study. This finding indicates that stress, possibly through its impact on the hippocampus and prefrontal cortex, can potentiate false memories”, The effects of experimentally induced stress on false recognition. J. D. Payne , L. Nadel , J. J.B. Allen , K. G.F. Thomas, W. J. Jacobs, The effects of experimentally induced stress on false recognition, in Memory Vol. 10 , Iss. 1,2002.
[34] C. Lavorino, Analisi investigativa sull’omicidio, Roma, Emmekappa edizioni, 2000.
[35]False memories have been described in many different contexts, but their characteristics and underlying mechanisms have seldom been compared or debated. Those reviewed in the present paper include: spontaneous confabulation in brain disease, false recognition cases, delusional memories and other delusions in psychosis, “confabulations” in schizophrenia, “internalised” false confessions for crime, apparently false or distorted memories for child abuse, pseudologia fantastica, the acquisition of new identities or “scripts” following fugue or in multiple personality, and momentary confabulation in healthy subjects. It is suggested that these should be viewed as different types of false memory, and that confabulations and delusions should be kept conceptually distinct. However, they can all be characterised within a general model of memory and executive function, provided that social factors and some notion of “self” (here called a “personal semantic belief system”) are included in the model” Varieties of false memory. M. D. Kopelman, Varieties of confabulation and delusion, in Cognitive Neuropsychiatry, 2009.
[36] G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, Il mulino, 2003.
[37] R. M. Bauer, Autonomic recognition of names and faces in prosopagnosia: a neuropsychological application of the Guilty Knowledge Test, in Neuropsychologia, 1984.
[38] G. Mazzoni, op. cit.
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[44] E. F. Loftus, Come si creano I falsi ricordi, in Le Scienze, 1997, 351.
[45] L.M. Goff,  H.L. Roediger, op. cit.
[46] S. M. Kassin, K. Kiechel, The Social Psychology of False Confessions: Compliance, Internalization, and Confabulation, in Psychological Science, 1996, 7, 3.
[47]  E. F. Loftus, op. cit.
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[52] G. Mazzoni, op. cit.
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[60] K. Popper, Logica della scoperta scientifica [1934], Einaudi, Torino, 1970.
[61] Cass. Pen. Sez. III sent. n. 8962/97
[62] Carta di Noto, revisione del 2002.
[63] G. Mazzoni, op. cit.
[64] G. Gulotta et al., op. cit.
[65] Cass. Penale, Sez. III, sentenza  6 dicembre 1995
[66] Cass. Sez. III Pen., sent. n. 9811/07
[67] G. Gulotta, La perizia per l’affidamento dei minori, in Guida al Diritto – Famiglia e minori, n. 5 maggio 2007.
[68] consulenza tecnica della Dott.ssa omissis, consulente del PM